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“Avvenire” e “Il Manifesto” su azzeramento fondi editoria

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AVVENIRE

I giornali nel mirino del governo. Stavolta non si tratta di polemiche contro l’una o l’altra testata. Ma di un intervento di natura strutturale per tagliare i contributi all’editoria di carattere non profit. È scritto nero su bianco nella risoluzione di maggioranza sul Def: «Un graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo, quota del Dipartimento informazione editoria, assicurando il pluralismo dell’informazione e la libertà di espressione». Il fondo diventa ufficialmente quindi uno dei cespiti da cui il governo vuole estrarre risorse. Un vecchio cavallo di battaglia del M5s, come ha ripetuto anche recentemente il sottosegretario di Palazzo Chigi con delega sull’editoria Vito Crimi, che ora viene rilanciato dall’intero esecutivo. Nel grande fiume della spesa pubblica il fondo editoria è un rivoletto. Che però aiuta a tenere viva la voce di molte testate locali e nazionali (Avvenire è tra queste, accanto a diversi giornali diocesani) cioè a sostenere fattivamente il pluralismo informativo e culturale in Italia. Quel pluralismo che la risoluzione di maggioranza afferma di voler sostenere mentre taglia le risorse dedicate. Dopo la riforma del 2016 che ha tagliato fuori i giornali di partito nel fondo per la carta stampata sono rimasti circa 60 milioni, suddivisi tra 48 testate nazionali e regionali e 105 realtà editoriali locali. Tutte facenti capo a cooperative o imprese senza fini di lucro. L’ ultimo stanziamento noto riguarda la prima rata sul 2017 (il 42% del totale).

Sull’annuncio del governo è intervenuta ieri Stampa Romana (una delle associazioni regionali del sindacato dei giornalisti) con il presidente Lazzaro Pappagallo. «Dopo l’ultima riforma, il fondo ha perso 150 milioni. Non finanzia i grandi quotidiani, ma le voci legate ad un pensiero critico e non omologato e la piccola editoria territoriale. Pensare che testate come il manifesto e Avvenire siano monopolisti lascia a bocca aperta. La loro voce ha rilievo anche per chi dirige il Paese, basti pensare alla campagna contro la ludopatia condotta da Avvenire che ha costituito la base per un pezzo del ‘decreto dignità’. Qui nel Lazio quello che resta dell’editoria dei territori con i contratti di lavoro in regola si regge sul finanziamento pubblico. Il ministro del lavoro Di Maio – aggiunge la nota – deve anche pensare che così saltano centinaia di posti di lavoro».

Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ha commentato: «Sarebbe una scelta semplicemente sbagliata perché è stato fatto un lavoro di bonifica, ci sono fondi mirati oggi per il sostegno di giornali che hanno caratteristiche particolari, cioè che sono in relazioni forti coi territori, che hanno una vocazione non-profit, sono quindi controllati da cooperative o da fondazioni che non hanno fini di lucro». Protestano le opposizioni. Per il senatore Renato Schifani (Fi) «con la fine del sostegno pubblico all’editoria si rischia di spegnere un pezzo di democrazia». E Michele Anzaldi (Pd) sottolinea come «azzerare il Fondo significa colpire l’informazione di carattere locale: sarebbe il colpo di grazia per decine e decine di testate, con centinaia di lavoratori che rischiano di perdere il posto».

(N.P.)

IL MANIFESTO

«Graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo, quota del Dipartimento informazione editoria, assicurando il pluralismo dell’informazione e la libertà di espressione».

Al di là del testo da neolingua (azzerare il pluralismo… assicurando il pluralismo) la Lega concede ai 5 Stelle uno degli scalpi più ambiti.

In fondo, il MoVimento era nato con un sonoro «vaffaday» nel 2008 proprio contro il finanziamento pubblico ai giornali.

È strano però che la faccenda torni in auge oggi, quando i giornali chiudono benissimo anche da soli senza l’intervento del governo (e dunque avrebbero bisogno di sostegno) e quando la battaglia pentastellata è ormai ampiamente vinta.

I contributi pubblici, infatti, sono in picchiata proprio da quella giornata torinese. In edicola non esiste più nessun quotidiano di partito e le inchieste penali riguardano ormai vicende di tanti anni fa.

TUTTO IL SISTEMA della carta stampata soffre.

Conta sempre meno anche se non pochissimo come si vuole far credere: quasi 4 miliardi di euro di fatturato l’anno (fonte Agcom), decine di migliaia di edicole e 40 milioni di italiani che leggono notizie su carta o digitale tra quotidiani e periodici (fonte Audipress 2018/II).

Dal 2009 al 2017, i contributi diretti alla stampa sono diminuiti del 76%. Sono solo 6 su 63 quotidiani nazionali certificati Ads a riceverli.

Questo universo è sempre più interdipendente nella parte industriale ma sempre più oligopolista in quella strettamente editoriale.

Il gruppo Gedi è sulla soglia antitrust della tiratura nazionale mentre nelle edicole di molte città si trovano giornali di un unico editore.

LA MOZIONE di maggioranza sul Def sul «graduale azzeramento» del fondo per il pluralismo apre dunque un solco il cui significato politico è evidente: i giornali, tutti, sono i nemici del governo e dunque del popolo (proprio come per Trump).

Si vedrà poi nel successivo lavoro parlamentare chi, dove e cosa cadrà sotto la ghigliottina.

Bene perciò che le opposizioni si allarmino, perché l’informazione riguarda tutto il parlamento, non certo il governo di turno.

IL MANIFESTO, AD ESEMPIO, è nato nel 1971 prima dei contributi pubblici. Ha vissuto onestamente sia con, che senza. Siamo una cooperativa pura, e di certo non siamo mai stati a libro paga di nessun governo, padrone o partito.

Non è (solo) di noi però che si parla, come dimostra la diversità (il pluralismo) delle pochissime testate che oggi ricevono i contributi diretti.

Attualmente sono 48 in tutto e tra queste sono solo 6 quelle più grandi (sulle 63 certificate Ads).

Giornali diversissimi tra loro: Avvenire, Libero, il manifesto, Italia Oggi, il Quotidiano del sud e il Quotidiano di Sicilia. Simpatici o antipatici che siano, è difficile definirli giornali accondiscendenti con Lega e 5 Stelle. Perciò si deve dedurre che il governo vuole colpire proprio le voci lontane. Prima quelle più deboli, poi le altre.

La Lega peraltro già lo fa sul territorio, impedendo l’arrivo di Avvenire e manifesto perfino nelle biblioteche comunali (accade a Monfalcone).

NEL CAOS DELLA PROPAGANDA è bene ricordarlo: il fondo pubblico che il parlamento vuole «gradualmente azzerare» finanzia solo i giornali di cooperativa, quelli senza fini di lucro, delle associazioni dei consumatori, delle minoranze linguistiche e per i non vedenti.

Di Maio, ad ogni buon conto, ha esplicitamente escluso dalla mozione parlamentare l’altra parte del fondo, quella di competenza del suo ministero dello Sviluppo, che l’anno scorso ha destinato 67,8 milioni alle radio e tv locali, evidentemente più utili a Lega e 5 Stelle.

Un paio di numeri

Nella serie di audizioni alla Camera sui propositi del governo, il sottosegretario all’editoria Vito Crimi ha più volte riconosciuto che «i “fasti” del passato sono ormai un mero ricordo, anche grazie all’azione moralizzatrice del M5s».

Come dargli torto: centinaia di milioni in meno a tutto il settore e «criteri più rigidi e trasparenti» (Crimi dixit).

Una buona riforma, quella varata dal predecessore Luca Lotti nel 2016, con parti importanti ancora da attuare: contributo a carico delle concessionarie di pubblicità, fondo per le startup, riforma della professione giornalistica. Purtroppo al richiamo della propaganda è difficile sfuggire quando i consensi calano.

95.000.000
Le copie annue vendute da giornali e periodici che usufruiscono dei contributi diretti. Sono circa l’8% del totale italiano.

Fonte: sen. Vito Crimi, audizione in commissione Cultura alla Camera del 26 luglio 2018 sulla base delle dichiarazioni certificate dalle società di revisione

1.600
I giornalisti e i poligrafici regolarmente assunti a tempo indeterminato e retribuiti sulla base dei rispettivi contratti collettivi nazionali impiegati dalle testate che usufruiscono dei contributi diretti.

Fonte: sen. Vito Crimi, audizione in commissione Cultura alla Camera del 26 luglio 2018

(Matteo Bartocci)

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