Dopo un duello per un articolo che un deputato ritenne diffamatorio nacque a Roma 140 anni fa il Sindacato dei giornalisti (A.S.P.I. – Associazione Stampa Periodica Italiana, di cui il primo Presidente fu Francesco De Sanctis, neo Ministro della Pubblica Istruzione) poi confluito dopo la fine della Grande Guerra nell’Associazione Stampa Romana, che ne ha poi continuato l’opera sino ai giorni nostri.
Il duello a colpi di sciabola avvenne nella capitale la sera del 16 maggio 1877 per lavare l’onta di un articolo ritenuto sarcastico e diffamatorio, pubblicato sul “Fanfulla”, prestigioso quotidiano dell’epoca. La sfida fu vinta dall’onorevole Augusto Pierantoni (avvocato, deputato radicale per molte legislature e genero del ministro della Giustizia Pasquale Stanislao Mancini), che, alto come un corazziere, dopo tre attacchi ferì in allungo all’avanbraccio il giornalista parlamentare del “Fanfulla” Fedele Albanese.
Per la ricostruzione storica dell’intera vicenda si rimanda all’interessantissimo e documentato articolo (accluso in calce), che scrisse David Sassoli nel 1997 in occasione del 120° anniversario dell’Associazione Stampa Romana. Sassoli, all’epoca giornalista Rai e conduttore del Tg1, divenne nel 2005 Presidente dell’Associazione Stampa Romana, quindi Vice Direttore del Tg1. Fu poi eletto nel 2009 parlamentare europeo.
A dimostrazione di quanto fosse ancora importante alla fine dell’Ottocento la diffamazione a mezzo stampa si ricorda che sempre per lavare l’onta del disonore il 56enne deputato radicale dell’estrema sinistra Felice Cavallotti, fondatore della “Gazzetta rosa” (giornale politico-letterario degli “scapigliati”) e Vice Presidente dell’Associazione Stampa Romana, rimase ucciso nel suo 33esimo duello con il conte padovano e deputato della destra Ferruccio Macola, direttore della “Gazzetta di Venezia”.
Lo scontro avvenne a Roma fuori Porta Maggiore, nel giardino della Villa della contessa Macchi di Cellere nel pomeriggio del 6 marzo 1898. Al terzo assalto Cavallotti ebbe recisa la carotide e morì nel giro di pochi minuti. In suo ricordo Giosuè Carducci pronunciò un discorso funebre all’Università di Bologna. Macola, invece, venne esiliato dalla vita politica e sociale, e anni dopo si uccise.
Ciononostante la nostra legislazione in materia, rimasta ad oggi troppo datata, è di fatto in gran parte superata dal cambiamento dei tempi e dalle più moderne tecnologie. Ed é una riprova dei corsi e ricorsi storici, perché, a distanza di oltre un secolo e mezzo dallo Statuto Albertino, il Parlamento italiano non ha ancora approvato in via definitiva la riforma della diffamazione. Ma dietro a questo gravissimo ritardo, c’é forse un estremo tentativo dei politici di imbavagliare la stampa? Perché allora per mettere a tacere ogni critica ed ogni polemica i parlamentari non riprendono in mano questa riforma che attende da così tanto tempo, visto che nell’Ottocento di diffamazione si poteva anche morire in duello senza neppure adire la magistratura? E allora che c’é davvero dietro a questo apparente ritardo? C’é, forse, un estremo tentativo dei politici di imbavagliare la stampa?
L’ultimo progetto di legge ha avuto un iter molto travagliato: é stato approvato alla Camera il 17 ottobre 2013 e poco più di un anno dopo, il 29 ottobre 2014, anche dal Senato, che lo ha, però, modificato in alcuni punti. Il disegno di legge C 925B é stato poi di nuovo convalidato dalla Camera il 24 giugno 2015 e rispedito al Senato per la ratifica finale (vedere l’accluso allegato). Ma a palazzo Madama in quasi 2 anni la Commissione Giustizia si é riunita appena 4 volte per affrontare l’argomento (e precisamente il 9 settembre 2015, l’11 e 12 gennaio 2017 e il 22 febbraio 2017, seduta in cui sono stati presentati nuovi emendamenti al testo). Insomma, siamo tutt’altro che in dirittura d’arrivo in 4^ lettura al Senato! Ed anche l’ultima bozza del progetto di legge S-1119 B presenta comunque numerose gravi lacune, denunciate apertamente dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla FNSI – Federazione Nazionale della Stampa Italiana, sindacato unitario dei giornalisti.
Ad esempio, come ha giustamente rilevato da tempo il Segretario di “Ossigeno per l’informazione” Giuseppe Federico Mennella, i senatori non si sono neppure accorti che l’articolo 2, secondo comma, del progetto di legge S-1119 B deve essere comunque modificato dopo la depenalizzazione che ha abrogato il reato di ingiuria, previsto dall’art. 594 del codice penale, per effetto di un decreto legislativo varato dal Governo in via definitiva circa un anno e mezzo fa (é il n. 7 del 15 gennaio 2016, che fa seguito alla legge delega n. 67 del 28 aprile 2014). Ciò, purtroppo, dovrebbe inevitabilmente far slittare i tempi dell’approvazione definitiva di un provvedimento attesissimo dalla categoria, ma che lascia ancora molti punti in sospeso.
Mi permetto di segnalarne due in particolare: il troppo ampio termine per fare causa civile per danno da diffamazione e la mancata regolamentazione della possibilità di rivalsa dell’editore nei confronti dell’autore dell’articolo e/o del direttore.
Chi scrive vanta il record di essere stato nel 1988 – quando era cronista giudiziario del “Corriere della Sera” – il primo giornalista in Italia:
A) a ricevere un atto di citazione davanti al tribunale civile l’ultimo giorno dei 5 anni previsti genericamente non da una norma specifica, ma dall’art. 2947 del codice civile, senza peraltro aver mai avuto prima alcuna neppure una lettera raccomandata di contestazione dell’articolo ritenuto diffamatorio;
B) a ricevere una richiesta di manleva da parte del “Corriere della Sera” che preannunciava di volersi rivalere su di me per ottenere il rimborso di quanto avrebbe dovuto pagare se il giornale fosse stato condannato in sede civile. A conclusione di una vertenza durata una dozzina d’anni ho sempre vinto in tribunale, corte d’appello e Cassazione. Ma il problema é rimasto sul tappeto e le due delicate questioni giuridiche sono ancora in gran parte insolute.
Infatti l’art. 1, terzo comma, del progetto S-1119 B (norma già approvata in doppia lettura) prevede che “Nei casi previsti dalla presente legge, l’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione si prescrive in due anni dalla pubblicazione». Pertanto si ridurrebbe il termine di prescrizione dagli attuali 5 anni a 2 anni dalla pubblicazione. Ma sarebbe solo un piccolo passo avanti, perché 2 anni sono sempre troppi e violano il diritto di difesa del giornalista, garantito dall’art. 24 della Costituzione. Come si fa a ricordare dopo 2 anni come é nata una notiia? Chi ha dato l’informaione? Chi é stato l’autore del titolo dell’articolo?
Ma c’é di più. Si pensi, ad esempio, che in base alla legge sulla stampa (é la n. 47 dell’8 febbraio 1948), per presentare querela in sede penale per diffamazione il cittadino, presunto danneggiato, ha tempo 90 giorni consentendo così al giornalista di poter apprestare adeguatamente le sue difese. E allora per quale motivo lo stesso cittadino, presunto danneggiato, che volesse, invece, chiedere in sede civile un risarcimento danni milionario potrebbe attendere oggi addirittura 5 anni o, invece, 2 anni se fosse approvato il progetto S-1119 B? Ma chi é stato denigrato ingiustamente nel proprio onore e/o reputazione non dovrebbe, forse, dirlo o strillarlo a gran voce da subito, anziché restare nell’ombra assoluta per 2 o 5 anni, assomigliando così più ad un “ricattatore”, che ad un vero e proprio “diffamato”?
Analogamente dovrebbe essere risolto anche l’altro tema che non é stato sinora minimamente affrontato dal progetto S-1119 B, cioé quello della c.d. azione di “manleva” da parte dell’azienda nei confronti del giornalista che venga condannato a risarcire terze persone per un articolo ritenuto diffamatorio in sede civile. E’ una questione molto delicata che va comunque regolamentata con equilibrio, equità e buon senso a tutela dei cronisti e dei direttori che rischiano di veder pignognari o sequestrati ni propri beni (casa, auto, c/corrente bancario, ecc). Ma non può essere lasciata – come oggi – in bianco, cioé al libero arbitrio.
Pierluigi Roesler Franz