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Catena produttiva digitale: il resoconto, gli spunti, le idee

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Catena produttiva digitale.
L’abbiamo chiamata così la giornata di riflessione sul digitale nella nostra professione organizzata ieri dall’Associazione Stampa Romana perché è questa la posta in gioco nel nostro mondo del lavoro.

Come riconoscere e organizzare, anche nei contratti di lavoro, una moderna catena di produzione giornalistica.

Dalla costruzione degli algoritmi dei sistemi editoriali e della tracciabilità delle notizie in rete alle figure professionali necessarie per produrre e distribuire il prodotto collettivo che ogni giorno elaboriamo.

I tanti colleghi che hanno partecipato all’evento nella sede di Stampa Romana

Era ed è necessario che si discuta tra i colleghi di questo perché in questo perimetro, in questo stadio si gioca la nostra partita. Una partita ampia che parte dalla identità professionale dinamica per arrivare al nodo delle risorse del sistema informazione.

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GLI INTERVENTI 

Il primo guanto di sfida è stato lanciato da Michele Mezza. La riflessione dell’inventore di Rainews24, docente alla Federico Secondo di Napoli, si è mossa da un uovo, ovvero la foto di un uovo perfettamente sferico rilanciata da Instagram, il social più in ascesa, con centinaia di milioni di visualizzazioni e di like.

Alla forza di quell’immagine e al suo rilancio spasmodico fa da contrappeso il fotomontaggio di una redazione nell’arco al completo cinque anni fa e con i dipendenti sostituiti oggi dalle sagome nere di chi ha perso il lavoro. Il paradosso è che questo con i suoi drammi sociali accade nell’età suprema dell’informazione e della conoscenza, nell’età della condivisione e della circolarità ma i profitti e, per Mezza, soprattutto i codici linguistici, computazionali e comportamentali sono tutti nelle mani di chi gestisce Google e Facebook, gli over the top.

Michele Mezza e Mario Fatello, caporedattore TGR Rai, hanno denunciato nei loro interventi la campagna pubblicitaria che Google ha lanciato sui nostri quotidiani nei giorni scorsi.

Il gigante di Mountain View ha contestato nel testo pubblicato la direttiva comunitaria sul copyright e sostanzialmente pur riconoscendo il valore della libera stampa fa capire che il vero padrone del vapore non è l’editore sulle cui pagine tu lettore stai leggendo proprio quella inserzione pubblicitaria ma chi ha pubblicato l’inserzione.

Per Fatello è necessario che si aprano le scatole nere che sono dietro gli algoritmi degli over the top, una minaccia per la libera circolazione di contenuti essenziali anche per la democrazia dei nostri sistemi occidentali e per la libertà di scelta e di azione dei cittadini.
La circolarità dei contenuti deve prevalere sulla proprietà dei contenuti e soprattutto degli algoritmi, vera chiave di accesso pubblico alla trasparenza del sistema.
Per far questo, ad avviso di Mezza, la categoria deve recuperare conflittualità anche su queste dinamiche legate ai saperi degli over the top e ricucire al suo interno lo strappo tra competenze umanistiche e tecnico-ingegneristiche, impostando nuove alleanze professionali sul prodotto digitale.

Con gli interventi di Pierluca Santoro, Datamediahub, e Pierluigi Grimaldi, OverPress Media, il focus si è spostato sui social.

Può l’informazione italiana fare a meno dei social?

La risposta sarebbe no, la pratica dice altro. Sui social le aziende editoriali investono poco e realizzano poco engagement con i lettori. Le risorse magre destinate ai social, umane ed economiche, sottendono una trascuratezza dimostrata dai dati esposti da Santoro con una interazione nulla con i lettori e destinata, quando c’è, al sito e non ai social.

I social sono considerati discariche di link ma non si commenta, non si fa interazione con gli utenti, non si fa moderazione con i cittadini, lasciando così il campo a haters e a violenze verbali con la testata/arbitro clamorosamente seduta sugli spalti.

Pierluigi Grimaldi – OverPress Media

Sui social invece si possono costruire profili utilissimi a un mondo della stampa che vende le stesse copie di Caporetto 1917. Calendari editoriali scelti con cura, analisti di flusso e di mercato, psicologi del comportamento degli utenti, studio del volume di traffico di lettura che dal digitale può essere spostato su carta e così via. Non si è capito che sul digitale, grazie ai social (gli uni diversi dagli altri, anche questo non è sempre chiaro), è fondamentale creare una comunità che ti appoggia, ti fa vivere, stimola il confronto e la discussione.

Gianni Del Vecchio, condirettore di Huffington Post, ci ha raccontato la storia di una piccola azienda nativa digitale sana, con il bilancio in attivo da tre anni. Grazie a questa stabilità economica Huffington ha potuto assumere giornalisti con articoli 1.

I ricavi sono il frutto della pubblicità in house e sugli over the top. Il loro modello in questo momento è open e gratuito. La redazione si è strutturata con divisioni tra colleghi che seguono hard news, altri che seguono le soft news, con le breaking news e il rilancio sui social e commenti dei blogger.
La titolazione è articolata e differenziata per intercettare le query di Facebook e Google con l’indicizzazione nei motori di ricerca.

Patrizia Fontana ci ha raccontato l’approccio al web del Tgcom. E’ un approccio che porta direttamente il contenuto sui social perché lì ci sono i lettori. Gli utenti, vuoi per pigrizia vuoi per sfiducia nei confronti del sito/giornale e dei giornalisti, cercano i contenuti direttamente sui social. Facebook è considerato un giornale. La struttura di Mediaset è composta da una trentina di persone e il gruppo del Biscione si rende conto della strategicità di una presenza coerente ed articolata sul web.

Tutti gli inteventi, citiamo solo come esempio Christian Ruggiero, docente della Sapienza di Roma, hanno richiamato il valore della formazione. I nativi digitali non hanno bisogno di farsi spiegare cosa sia il mobile journalism o i social perché hanno già attitudine agli strumenti di lavoro digitale.

Hanno invece bisogno di farsi spiegare come si faccia bene giornalismo, come ci sia una etica del giornalismo, come lo scambio di saperi generazionali possa essere una finestra per dare respiro e speranza alla professione.

Giuseppe Smorto, vicedirettore di Repubblica, Matteo Bartocci, direttore editoriale del Manifesto, e Salvatore Cannavò, vicedirettore del Fatto quotidiano, hanno descritto la transizione tra carta e digitale all’interno delle loro testate.

Salvatore Cannavò – Il Fatto Quotidiano

Smorto ha sottolineato l’importanza del lavoro svolto dal digitale, dalla conquista anche fisica di uno spazio all’interno della sede di Repubblica sulla Colombo con il terzo piano tutto dedicato al digitale, della presenza di social media manager, di moderatori del dibattito sul sito, della presenza da regolare meglio di videomaker, della trasformazione del quotidiano nel confronto anche aspro con i colleghi per vincerne resistenze e pigrizie, su come impostare il lavoro vivo di una redazione.

Bartocci non crede a un giornalista che sappia fare tutto. Immagina invece un modello di esperienza collettiva, il quotidiano, in cui tutte le competenze diverse, non solo giornalistiche, alimentano il prodotto. Il Manifesto per scelta e vocazione ha scelto di non tracciare i lettori, facendo a meno della pubblicità, ma ha scelto il modello con il paywall, attribuendo al contenuto un valore economico. Solo con scelte coraggiose e nette non generaliste è possibile offrire idee e letture ai propri lettori di riferimento.

Anche per Salvatore Cannavò il giornalismo non può rinunciare alla identità di dare notizie. La crisi della stampa arriva anche dal non sapere rispondere al bisogno elementare di offrire le notizie che i poteri vorrebbero tenere nascoste.

Il digitale vincente economicamente è ancora un sacro graal da conquistare. Nessuna azienda editoriale ha la formula giusta, tanto meno nel rapporto tra carta e digitale, con le due redazioni del fatto, separate da 500 chilometri di distanza. Si risponde alla crisi dell’editoria con la passione e l’identità degli intermediari, dei giornalisti. L’innovazione viene dopo. Anche Cannavò ha definito un grave errore l’approccio completamente gratuito al web. Mediapart francese, alleato del Fatto, ha 60mila abbonati paganti che si traducono in un flusso importante di inchieste scomode.

Nico Piro, inviato del tg3 e pioniere del mobile journalism, condivide lo stesso tipo di orizzonte. Il nostro prodotto è più scadente di quello di 10/15 anni fa. Il successo dei nuovi media corrisponde a una domanda di notizie frustrata dall’editoria tradizionale. Il giornalismo di qualità con il suo valore di testimonianza è e sarà vincente perché non omologabile.

Nico Piro – Inviato esteri Tg3

Con l’intervento di Ida Baldi, fiduciaria INPGI, l’asse di riflessione si è spostato sull’istituto previdenziale. Un possibile intervento per salvare e mettere in sicurezza i conti del nostro istituto di previdenza sta nell’assorbimento di comunicatori, privati e pubblici, ingegneri editoriali e informatici.

Un intervento sollecitato per le condizioni critiche dell’istituto ma che apre anche scenari inediti di riconoscimento di chi condivide un orizzonte di prodotto comune. Un passaggio necessario quando il rapporto attivi/pensionati è di 1,6, quando un lavoratore autonomo del nostro settore guadagna 10mila euro l’anno, quando il livello delle pensioni medie è più alto del livello delle retribuzioni medie (65mila a 59mila euro).

Francesco Giorgino, conduttore del tg1 e docente Luiss, si è soffermato su uno degli incroci pericolosi dei nostri tempi: il rapporto tra informazione, comunicazione e marketing. Se, ha ragionato Giorgino, il Censis ci dice che tra i tre media di informazione degli italiani c’è Facebook, vuol dire che il panorama mediatico è completamente cambiato.

Il rischio è che, nell’epoca della disintermediazione, il pendolo corra tra un giornalismo senza informazione e una informazione senza giornalisti, che tra l’interesse e l’importanza sociale si batta più l’accento sul primo tasto. E qui nel riequilibrare la bilancia e la dieta mediatica dei cittadini può e deve svolgere un ruolo l’informazione.

Riccardo Tagliapietra, comitato di redazione del Messaggero, ci ha riportato il racconto di chi lavora sul web tra turni duri e lunghi, velocità supersonica nel confezionamento delle notizie, ruoli impropri da ricoprire, formazione fai da te. Tagliapietra ha indicato nella firma dei pezzi un tentativo di responsabilizzare la catena produttiva.

Con la firma rispondi di quanto scrivi, ne dai valore, assumi la responsabilità della notizia, del controllo, della verifica. In questo modo si riacquisisce contezza della responsabilità giornalistica anche per evitare querele. La firma rappresenta anche un deterrente per l’automazione di titoli e testi che certamente è uno dei nodi da affrontare nel futuro.

Gianni Todini, vicedirettore di askanews, ha ringraziato tutti i suoi colleghi impegnati in una vertenza sindacale per salvare posti di lavoro e l’identità dell’agenzia di informazione. Todini ha sottolineato il bisogno di sfidarsi sul digitale.

I prodotti tematici, verticali, dedicati a committenti terzi, il notiziario tradizionale con la differenza tra hard news e notizie digitali, un blocco redazionale in cui si mescolano competenze digital, social e video sono patrimonio di chi lavora al rilancio dell’agenzia.

Il modello di business per Todini deve essere un mix tra tutto quello che già c’è in campo, incluso il crowdfunding. Le stesse newsletter dedicate a temi specifici per lettori e aziende mirate, possono essere un grande settore di investimento e di risorse per editori e redazioni.

Marco Renzi, lsdi, ha indicato nell’attenzione alle figure professionali definite dal contratto Uspi una indicazione di marcia importante per creare la catena produttiva digitale. A questo bisogna affiancare il ruolo dell’internet delle cose e delle smart cities con l’arrivo a breve del 5G che darà ulteriore impulso ai processi produttivi sul digitale.

A margine di questi interventi vi riportiamo il senso di chiacchierate digitali o telefoniche con altri due colleghi presenti.

Sandro Petrone, già inviato del tg2, ci scrive che l’azione sindacale deve ritrovarsi intorno a due/tre punti fondamentali sul futuro: la difesa dei contenuti informativi attraverso l’imposizione di alcuni standard, la retribuzione degli autori e il riconoscimento del diritto morale d’autore.

Nico Perrone, direttore dell’agenzia Dire, ci ha detto che su due punti bisogna cercare nuovi stimoli: l’ibridazione con altre professioni e altri saperi a iniziare da ambienti di lavoro contigui; una alleanza strategica con le scuole, a partire dalle medie, per lavorare con i ragazzi sull’educazione all’informazione, sullo scambio tra nuove competenze e nuovi lettori con la rappresentazione del valore sociale del bene Informazione.

Anche Federico Tulli e Leonardo Filippi di Left, hanno voluto partecipare all’evento inviando un breve video 

???? GUARDA QUI IL VIDEO

Per Stampa Romana questo dibattito rappresenta l’inizio di un lavoro sul digitale che proveremo ad articolare con team mirati di ragionamento e di riflessione da articolare nelle prossime settimane in vista anche del rinnovo contrattuale Fieg/Fnsi.

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