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I discorsi dell’8 marzo

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Discorso di Paolo Butturini, Consigliere Segretario Associazione Stampa Romana
Care colleghe e cari colleghi

Cento è un numero che fa effetto, dà il senso dello scorrere del tempo, del farsi della storia, in questo caso una storia tutta al femminile. L’Associazione Stampa Romana, prima dell’elezione del sottoscritto, è stata guidata per sei anni da una collega, Silvia Garambois, che ha governato con le prerogative dell’essere donna: la passione coniugata alla concretezza, l’attenzione al particolare senza scordare il quadro complessivo. Potevamo non tenerne conto? Ovviamente la risposta è no. Non soltanto per quella norma del buon senso che impone di conservare ciò che di positivo ti viene lasciato in eredità, ma soprattutto perché il sindacato, prima che dei contratti, delle regole e delle vertenze, deve occuparsi delle persone. E se c’è una lezione che viene dall’universo femminile è quella di non prescindere mai dall’individuo, dalla sua irriducibile differenza, dalla sua incancellabile unicità.

Siamo qui non per celebrare, ma discutere, non per festeggiare, anche se ci saranno momenti spero divertenti, ma per riflettere. Abbiamo dedicato questa giornata a una collega, Ilaria Alpi, che ci è cara per come ha saputo interpretare, altra qualità femminile, la professione come sfida all’oscurità, come tentativo di far prevalere la luce della verità dei fatti sul buio della violenza e dell’inganno, pagando per questo il prezzo più alto. Ma Ilaria è viva, a testimoniarlo oggi sono qui con noi mamma Luciana e papà Giorgio, perché, anche questo lo abbiamo imparato dalle donne, gli affetti fanno parte della storia, si intrecciano inestricabilmente con la sfera pubblica e se, pensando a Ilaria, dovesse spuntare una lacrima, abbiamo capito, sempre grazie alle colleghe, che fa parte del nostro essere persone, prima ancora che giornalisti.

Quello delle donne è un pensiero concavo: tende a inglobare non a escludere. Un pensiero che si confronta, a volte opponendosi, con quello maschile, per natura convesso, che tende a selezionare aprioristicamente, specie se declinato dalla parte del comando, mi verrebbe da dire del potere (non a caso sostantivo maschile). Non voglio apparire “femminista”, non ho mai creduto che la rappresentanza, qualsiasi essa sia, possa essere totalmente delegata, ma credo debba essere vissuta e testimoniata in prima persona. Le donne, e le giornaliste fra loro, hanno dimostrato di essere perfettamente in grado di battersi per i loro diritti. Ma nella naturale dialettica fra i sessi e la loro rappresentazione nella quotidianità, guardo con interesse alle tematiche che, nel corso dei decenni, le donne hanno saputo imporre all’attenzione del dibattito politico, sindacale e professionale. Le loro battaglie per la parità, per un’organizzazione del lavoro che tenesse conto delle diversità, per una selezione che si basasse sul merito e non su privilegi anacronistici e ideologici, per un’attenzione non di maniera ai più deboli, a chi nella scala sociale siede, non per sua scelta, sugli ultimi gradini, tutte cose vissute sulla loro pelle. Sono temi quanto mai attuali.

La complessa stratificazione dei media, l’irrompere di un veicolo potente e totalizzante come internet, la velocizzazione dei processi comunicativi, sono alcune delle questioni con le quali siamo chiamati a misurarci. Non so dire se ci sia un approccio femminile a queste tematiche, sono qui per scoprirlo insieme a voi. Qualche tempo fa era circolata una proposta di riorganizzazione della società modellata sui tempi delle donne. Mi sembrò un tentativo di porre un freno alla commercializzazione dell’esistenza, di riportare la persona al centro della vita sociale. Un tentativo, in buona sostanza, di ridefinire creativamente la scala dei valori.

Ecco, la creatività (sostantivo femminile) è forse la qualità della quale, noi giornalisti, abbiamo più bisogno in questo momento così difficile per la professione. Riportare al centro le giornaliste, i giornalisti e i giornalismi, la necessità di un mediatore senza il quale non esiste medium, è la base dalla quale ripartire anche nel confronto contrattuale che sta per riaprirsi. E qui sta tutta l’attualità della lezione delle donne: le notizie, l’ informazione sono il sale della democrazia, della piena cittadinanza (guarda caso tutti sostantivi femminili). Non ho volutamente affrontato, in questo breve intervento, le tematiche sulle quali siete chiamate a esprimervi, a dire la vostra. Perché questa giornata non vuole essere e non sarà il recinto in cui rinchiudere le vostre istanze. Tutto ciò che direte ci sforzeremo di trasformarlo in riflessione e iniziativa sindacale. L’autonomia della professione ha bisogno della vostra presenza, del vostro impegno. Statene certe, ne terremo conto e ci sforzeremo di esserne all’altezza.

Discorso di Stefania Tamburello, responsabile del Dipartimento Diritti e Pari Opportunità.

Cento anni fa 129 donne morivano nell’incendio della fabbrica dove erano
state rinchiuse dal padrone perchè avevano osato scioperare. Perchè avevano
esercitato un loro diritto. Da allora l’8 marzo viene celebrato come la
festa delle donne. Così si dice. Ma sarebbe tempo che tornasse ad essere,
così come era nelle intenzioni di chi l’ha proposta Rosa Luxemburg, una
giornata di riflessione e di dibattito sui problemi al femminile. Che sono
di tutti i giorni e non solo di una volta l’anno. Che riguardano, e ciò che
sta accadendo sull’aborto e sulla scelta delle liste e dei tempi politici,
tutti gli aspetti della vita lavorativa, sociale, politica ed anche
esistenziale. E per questo che il titolo della manifestazione è non solo
mimose…Non solo festa, non solo gabbia di un unico simbolo rappresentato
da un fiore bellissimo. Esistono altri fiori. Esistono altri terreni di
confronto. Per noi, sindacato, oggi è quello della professione.
Il mio primo approccio col sindacato dei giornalisti non è stato tra i più
felici: ero giovanissima ed entusiasta come gli altri giovani, 20 in tutto,
9 ragazzi e 11 ragazze, che partecipavano all’avventura , per noi era tale,
della nascita di Repubblica. Era un’occasione fantastica, penso la migliore
che potessi avere per avvicinarmi al giornalismo. In redazione c’erano anche
molte donne, rispetto al resto del panorama giornalistico. Una vera novità.
Ebbene , dopo qualche mese il sindacato cominciò a chiedere la cosiddetta
regolarizzazione del gruppo di giovani. Si decise di iniziare , e per quello
che si capiva anche di finire, con la definizione di 10 ,
preludio all’assunzione vera e propria. Potete immaginare cosa successe con
mia grandissima sorpresa? Il contratto fu fatto a tutti e 9 i ragazzi ai
quali venne aggiunta, non c’era alternativa, una ragazza, di gran lunga la
migliore del gruppo, mentre tutte le altre vennero lasciate fuori. Questo,
penso, non accadrebbe più o meglio il sindacato, spero terrebbe un
atteggiamento diverso.
Da allora ovviamente molte cose sono cambiate. Ricordo ancora che quando ho
iniziato ad occuparmi di banche e di finanza per l’Adnkronos, ero l’unica
donna a farlo, tanto che un banchiere, vistosamente imbarazzato, trovandosi
di fronte a a me e ad un collega per un intervista si rivolgeva solo a lui
per rispondere anche quando le domande le facevo io. Ora ad occuparsi di
finanza, come di politica, siamo in tante. Non c’è più differenza. La
componente femmminile nei giornali è sempre più numerosa. Ma io guardando ai
risultati raggiunti non sono felice. Mi sento in qualche modo sconfitta
nelle mie speranze di allora. E non solo per quello che ci dicono i numeri,
che qualcun altro dopo di me esaminerà nel dettaglio. E cioè che soprattutto
nei quotidiani la presenza femminile è quasi alla pari fra i redattori
ordinari mentre è assolutamente rarefatta tra i capiredattori,
vicedirettori, inviati e in particolar modo direttori ed editorialisti. E
ancora non solo per la schematicità di articoli o titoli come quello letto
ieri su Repubblica, ma potrebbe essere il Corriere o la Stampa, che si
riferiva ad Hillary Clinton, 60 anni appena compiuti, come un’evergreen
termine che, in inglese o in italiano, non mi pare sia stato mai usato per
definire un Bush o un politico italiano. No quello che mi fa più rabbia è
che non siamo riuscite in alcun modo a scalfire il modello di lavoro
giornalistico pervicacemente maschile, impermeabile al pragmatismo e alla
flessibilità femminile. E tanto per non essere vaga mi riferisco al modello
di potere, alle rigidità dell’orario di lavoro con l’assurdo allungamento
dell’arco di impegno e soprattutto al modello gerarchico di organizzazione
del lavoro che ci taglia fuori perchè non lo capiamo. Ebbene come sindacato,
ed è questo che oggi mi interessa, possiamo incidere. Possiamo fare e
sostenere una proposta per cambiare. In fondo siamo tante, siam più della
metà….

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