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Crisi in redazione: Rcs travolta dalla crisi, pronta a tagliare altri 106 giornalisti

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Milano, 30 lug 2009 – Mondadori chiude il primo semestre con un utile netto consolidato di 7,3 milioni di euro, in calo dell’80% rispetto ai 36,7 milioni di euro dei primi sei mesi del 2008 a fronte di un calo del fatturato a 730,7 milioni (-21,4%) e si prepara a tagliare gli organici di altri 106 giornalisti. Rcs Mediagroup fa anche peggio, chiudendo la prima metà dell’anno in rosso per 65,1 milioni (era in utile di 36,5 milioni un anno prima) e ricavi netti che calano a 1.092,5 milioni (-18,9% rispetto ai 1.346,7 milioni del primo semestre 2008) e manda a casa una novantina di giornalisti in Italia dopo aver già annunciato una ristrutturazione in Spagna (180 posti di lavoro, prima tranche di un taglio che nel complesso dovrebbe riguardare 300-400 persone).
Non va meglio al Sole24Ore, con 9,2 milioni di perdita netta nei primi sei mesi del 2009 (da un utile di 21,6 milioni l’anno prima) e ricavi scesi del 13,9% a 266,3 milioni, con conseguente annuncio di 200 esuberi (tra cui 40 giornalisti), né a L’Espresso-Repubblica che con un utile pressoché azzerato (0,1 milioni contro i 36,4 milioni del primo semestre 2008) e ricavi scivolati a 449,3 milioni (-17,3% rispetto ai 543,2 milioni di dodici mesi prima) apre a sua volta una trattativa sugli esuberi (90 i tagli ipotizzati solo per La Repubblica, su 470 dipendenti, ma sarebbero traballanti anche alcune decine di scrivanie al Messaggero Veneto di Udine e al Piccolo di Trieste).

L’elenco potrebbe continuare, con i tagli previsti o già in corso di attuazione nelle redazioni di La Stampa (60 pensionamenti e prepensionamenti tra i giornalisti, altri 76 tra i poligrafici), del Messaggero (una quarantina i posti a rischio) di Finanza & Mercati, del gruppo Class (dove si è optato per il taglio “volontario” degli stipendi degli oltre 400 dipendenti fin dalla scorsa primavera). E’ la conferma che qualcosa si è rotto, forse definitivamente, nella “foresta incartata” italiana e che non è solo un problema di singoli manager o specifiche aziende o testate.

Il settore, quello dei media “tradizionali” e in particolare della carta stampata, da tempo fatica a stare al passo coi tempi dopo aver già assistito alla scomparsa “per estinzione” della figura dell’editore puro e all’apparire sulla scena di una serie di soggetti (banche, imprenditori, uomini politici) per i quali il “foglio di carta”, l’emittente televisiva o finanche il sito web ha rappresentato uno strumento di potere utile a favorire una serie di scambi di favori tra “amici” o di “avvertimenti” in caso di contrasti tra “nemici”.

Ma la crisi economica ha fatto andare a gambe all’aria ogni equilibrio fatto da un lato di entrate “quasi certe”, legate a contributi pubblici, e “variabili”, legate agli introiti pubblicitari e diffusionali, dall’altro a costi spesso il più possibile compressi con l’utilizzo diffuso di stagisti, di provvedimenti di defiscalizzazione dei costi del personale, di addetti giovani e poco sindacalizzati, del ricorso estensivo al “taglia e incolla” di lanci d’agenzia e comunicati stampa gonfiati fino a farli diventare pezzi più o meno giornalistici, forse non così attraenti per i lettori ma di sicuro impatto per gli inserzionisti.

A questo punto c’è da chiedersi che futuro avrà il settore sia della carta stampata sia, in seconda battuta, dell’informazione “tout court”. Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e dare una risposta a un altro quesito. Una recente indagine effettuata dalla Cornell University su 90 milioni tra articoli di giornali e post in internet ha mostrato come esista ormai un preciso “ciclo di vita” delle notizie. Il proliferare dei blog e del “citizen journalism” non sembra per ora aver soppiantato i colossi mondiali dell’editoria, visto che questi arrivano sulle notizie in media 2 ore e mezzo prima rispetto ai “new media”.

Eppure le prime 10 fonti in termini di velocità di cronaca sono tutte blog e in un 3,5% dei casi sono gli stessi blog le fonti primarie di notizie poi rilanciate dagli “old media”. C’è di più: secondo uno studio presentato lo scorso maggio ad Atene da alcuni ricercatori europei, andati alla ricerca dell’esistenza o meno di una “coda lunga” nel mercato dell’informazione, lo scenario attuale è desolante. L’editoria vecchia e nuova è di fatto il regno delle agenzie e dell’outsorcing (il che appare verosimile e compatibile al modello sopracitato, ormai entrato in crisi), con l’80% degli articoli concentrati sul 20% di argomenti e il restante 80% di argomenti alla ricerca di un qualche spazio nel rimanente 20% degli articoli o post.

Delle due l’una: o il modello in essere si è affermato perché l’informazione “ridondante e stereotipata”, poco originale ma utile agli inserzionisti pubblicitari, è la logica e inevitabile conseguenza dell’affermarsi sempre più del modello “free” sul web (ma anche sulla carta stampata) e di una mancanza di interesse per la “qualità” e profondità delle notizie proposte, o esiste al momento un mercato potenzialmente sconfinato per quegli editori che volessero puntare sulla qualità non solo a parole. Capire quale delle due ipotesi sia la più corretta consentirà di tracciare il più realistico scenario del settore editoriale negli anni a venire, non solamente in Italia e non solamente per quanto riguarda la carta stampata.

Che peraltro dovrà comunque trovare una giustificazione al fatto di essere mediamente in ritardo rispetto ai suoi corrispettivi online e di costare; due caratteristiche che solo una reale differenziazione e qualità dei contenuti, probabilmente, potrà giustificare ancora, almeno sino a quando i new media non torneranno ad attrarre investimenti e non potranno dotarsi di quelle competenze (giornalistiche e non solo) che, secondo tutte le ricerche, restano l’elemento in grado di fare la differenza tra un’informazione di valore e una priva di reale interesse per i lettori.

Sempre che, naturalmente, cambi anche il modo di rapportarsi con i media da parte dei soggetti/oggetti di notizia, che troppo spesso in Italia tendono a legarsi a poche “firme” o testate e a non parlare ad altri. Facendo sì che il valore di un giornalista non stia tanto nella sua capacità di narrazione o di commento delle notizie descritte, quanto nella sua agenda di contatti. Ma questa è proprio un’altra storia, ancora tutta da scrivere e analizzare. (affaritaliani.it)

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