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Articolo del giornalista David Sassoli, pubblicato nel 1997 in occasione del 120° anniversario

David Sassoli

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Nel 1877 i giornalisti della Capitale creano il sindacato. Dopo un duello

di David Sassoli

David SassoliRoma, 1877. È maggio e da quasi sette anni la città del Papa è capitale d’Italia. Al governo c’è Agostino Depretis, che ha condotto a buon fine quella rivoluzione parlamentare che lo ha portato a sistemarsi a palazzo Braschi e a governare con Coppino, Mezzocapo, Brin, Nicotera e Zanardelli. In città l’aria è carica di novità. A Roma arriva gente da tutte le province, non solo per alimentare la macchina dello Stato, ma anche perché qui, ormai, è possibile far fortuna. La politica, da sempre, è una calamita che attira passioni e interessi. E nei caffè – dal “Veneziano” a “Ronzi e Singer”, dal “Greco” al “Parlamento” alla terza saletta di “Aragno” al Corso – è facile incontrare promettenti scrittori in compagnia di speculatori, artisti, truffatori, attori, ruffiani, giovani politici. Ci sono molti personaggi in cerca d’autore per le vie della città. E come un virus dilaga la voglia di fare il giornalista. I fogli stampati sono molte decine, e rappresentano le tante anime presenti sulla scena politica.

In questi sette anni i giornali sono nati e morti con grande velocità, a ripetizione, come mai era accaduto nella Capitale. Neppure nel ’21 e nel ’48, ai tempi caldi dei moti rivoluzionari. I romani fino alla breccia di Porta Pia erano abituati a discutere sull’unico strumento d’informazione disponibile, le “Notificazioni” dell’autorità ecclesiastica. Altro non c’era. Quando i piemontesi arrivano a Roma per comunicare con l’opinione pubblica attaccano manifesti. Ne attaccano anche due o tre al giorno, su ordine del Comandante di piazza o della Giunta provvisoria. In città, d’altronde, mancavano i tipografi, gli edicolanti, gli strilloni e molti cittadini non sapevano leggere. Roma papalina era una città molto diversa dalle altre capitali europee. Era città sì, ma simile a un paese, con le vigne sul Campidoglio, la biancheria stesa al sole, e quelle casette scrostate che si arrampicavano sui monumenti di Augusto e Aureliano. C’erano pochi caffè e molte bettole per la ‘fojetta’.

Con i piemontesi arrivano anche i “gazzettieri”. Anzi, arrivano prima delle truppe sabaude. Dopo aver sfondato Porta Pia, si sono fermate per riorganizzarsi ed entreranno in città verso mezzogiorno. I primi a scavalcare il muro sono i cronisti al seguito delle truppe. Fra loro, Edmondo De Amicis, Ugo Pesci, Edoardo Arbib. C’è anche Raffaele Sonzogno, milanese, discendente degli inventori della “Biblioteca universale” e dell’”Enciclopedia popolare”, che s’intrufola in città portandosi dietro una moderna tipografia portatile per stampare la sua gazzetta, la “Capitale”.

Giornalisti. Con quei vizi e virtù che continueranno a farne mestiere borghese, appassionato, interessato e assai pettegolo. Attivissimo, comunque. Il primo giornale, “Il Trionfo”, esce all’alba del 21 settembre. A ruota, lo seguono “Il Miglioramento” e la “Capitale” di Sonzogno. In pochi giorni Roma è inondata di fogli stampati. Nascono “Il Tribuno”, “Colosseo”, “Campidoglio”. La sera del 22 settembre esce la “Gazzetta del Popolo”. Si rimbocca le maniche anche Edoardo Perino, piemontese, che a Firenze stampava “La Riforma” vicino a Francesco Crispi. Anche lui si trasferisce a Roma, arrivandoci però due o tre giorni dopo, bloccato a Passo Corese dal diluvio che in quei giorni si è abbattuto sul Lazio. La pioggia fece straripare il Tevere e in Via di Ripetta si andava in barca.

Quando arriva a Roma, Perino comincia a stampare tutto quello che c’è da stampare. Biglietti da visita e testi filosofici; romanzi d’amore e vite di santi. Con genialità imprenditoriale pubblica a dispense testi d’ogni genere: clericali, anti-clericali, rivoluzionari. Per lui scriveranno l’esordiente Grazia Deledda, De Amicis, Ruggero Borghi, Giustino Ferri. Perino stampa anche Salvatore Di Giacomo, Enrico Panzacchi e per tre soldi l’uno i volumetti con le poesie di Gioacchino Belli. I romanzacci non si contano. Un grande successo arriva con “Beatrice Cenci” del bollente e violento livornese Francesco Domenico Guerrazzi, un vero mito per i giovani rivoluzionari.

Pochi mesi e Roma comincia subito ad essere diversa. Il mestiere borghese per eccellenza la coinvolge e l’appassiona. Gli strilloni la colorano. Ma anche allora per fare il giornalista ci voleva qualcuno che stampasse, vendesse e ci guadagnasse. Alcuni giornali resistono un solo numero. Nascono anche le prime edicole e in bella mostra espongono “Il Popolo romano”, fondato da Leone Fortis e diretto da Costanzo Chauvet, l’”Opinione”, la “Riforma”, il “Fanfulla” di Ferdinando Martini e Yorick, il prestigioso “Don Chisciotte” fondato nel 1873, “La Voce della Verità”, il quotidiano dei cattolici. E poi c’erano igiornali settari, polemici, faziosi, ironici come “Don Pirloncino”, “La Sega”, “la Frusta”, “la Raspa”, “la Lima”.

Il settore è in grande espansione e tiene insieme intellettuali, malandrini, scrittori, politici, poeti. C’è di tutto nelle piccole redazioni romane. C’è soprattutto molta politica, condita con una scrittura allegra, ironica. L’imparzialità non è ancora una virtù condivisa e professionale e lo scandalismo è d’obbligo. L’informazione,legandosi via via con il disincantato spirito romanesco, contribuisce a mandare in soffitta molte aristocratiche convenzioni.

Era il maggio 1877, dicevamo. Il “Fanfulla” è uno dei giornali più prestigiosi. È moderato, legato all’idea del primato della classe politica piemontese, e quella Sinistra arrivata al governo un anno prima proprio non gli piace. E lo scrive. Ma la destra storica ormai si era consumata, anche se continuava ad esprimere le migliori qualità della classe politica unitaria e soprattutto un alto senso dello Stato. La lotta politica è dura, stracolma di contraddizioni. I fronti parlamentari non coincidono con i partiti, tanto che la Sinistra – ex repubblicani, ex garibaldini, “azionisti” – diventa maggioranza alleandosi con la “destra toscana” e con il favore elettorale appena raccolto nel Mezzogiorno, nelle zone cioè meno repubblicane e garibaldine del Paese.

Contraddizioni. E trasformismo. Il malcontento domina, ma è un sentimento che stenta a diventare “politica”. A Roma, poi, tutto questo è esasperato, con circoli clericali e papalini che si ritrovano a sostenere il nuovo governo; con ambienti “democratici” che si oppongono
violentemente a Depretis, Crispi e Melegari. Anche il contesto non è d’aiuto. Pio IX sta molto male; nelle province italiane soggette all’Austria si registrano moti irredentistici; la Germania di Bismarck è vigile nella conservazione dei territori. Roma è capitale confusa e il vento che si respira si ritrova bene nelle pagine del “Fanfulla”.

Il giornale ha un impianto moderno, con molte rubriche firmate con nomi fantasiosi, intriganti. La prosa è “parlata”, spiccia. Le critiche al governo sono impietose. Il giornale è nato nel 1870 a Firenze, la capitale provvisoria, e subito ha racimolato insieme 1260 abbonamenti. Un successo. L’anno dopo si trasferisce a Roma seguendo truppe e travet. Lo dirige un giovane brillante, Baldassarre Avanzino. Ancor più della “sinistra”, non gli piacciono i radicali, gli anti-clericali, i garibaldini. In giro ce ne sono diversi. C’è Filippo Cavallotti. Ci sono i deputati Augusto Pierantoni e il suocero Pasquale Stanislao Mancini, ministro della Giustizia. Il “Fanfulla”, comunque, non è un quotidiano conservatore. L’editore è moderato e intraprendente e realizzerà la prima pubblicazione periodica nazionale, il “Fanfulla della domenica”, raccogliendo firme prestigiose. E anche buona pubblicità: della “ditta Schostal e Hartleim”, dell’”Acqua Figaro” buona per tingere barba e capelli, delle pillole purgative “le Roy”, degli armadi da ghiaccio “Littmann e Griesing”. Il “Fanfulla” si occupa di tutto: di cosa accade in Parlamento, nel mondo, nella aule giudiziarie, nei teatri. Nella guerra franco-prussiana è filo-francese.

Con passione segue gli scontri in Campidoglio fra il sindaco Venturi e Guido Baccelli, lo scienziato che aveva sconfitto la malaria nell’Agro pontino e non si tirava indietro quando c’era da rimproverare ai politici di “portare le loro passioni negli affari della città”. Le “passioni” erano soprattutto legate al nuovo piano regolatore del ’73 redatto dall’ingegner Alessandro Viviani. Roma si divide in due correnti: quella guidata da Quintino Sella che predica l’urbanizzazione ad Est e l’altra capeggiata dall’anticlericale conte Luigi Pianciani che vuole espandere ad Ovest, cominciando ad occupare i Prati di Castello per far vedere al Papa che Roma non è più sua. “Fanfulla” segue e scrive. E segue con cura anche il processone che si celebra nel convento dei Filippini. Riguarda l’omicidio di quel Sonzogno entrato in città la mattina del 20 settembre infilandosi nel “buco” di Porta Pia.

A ucciderlo è Pio Frezza un falegname incaricato da Giuseppe Luciani, il socio di Raffaele Sonzogno nella direzione della “Capitale”. Sono giornalisti noti nei “caffè” della città. Sono garibaldini, anticlericali viscerali, e anche attaccabrighe. Lavorano al civico 35 di via delle Coppelle, al piano di sopra della residenza romana di Giuseppe Garibaldi e frequentano tutto quello che di losco c’è da frequentare in città. Ma tant’è, ecco arrivare lo scandalo. A Roma non si parla d’altro, che del Luciani che si è portato via la moglie dell’amico. I giornali non si risparmiano e il pettegolezzo si gonfia di giorno in giorno. Si viene a sapere che la moglie frequentava un bordello; che la donna è incinta. Per l’ambizioso Sonzogno è una sfida insopportabile. I duelli non si contano. Non solo per la storia delle corna, ma anche per l’amplificata irruenza con la quale il giornalista si getta nel lavoro. Prende di petto tutti; cerca lo scandalo a tutti i costi. Il duello più clamoroso è quello con il principe Baldassarre Ladislao Odescalchi, il fondatore di Ladispoli, “azzannato” per aver istituito mense economiche in città. Duella e poi ricomincia. Ma una sera lo uccidono, pugnalato nella sua redazione dal falegname “garibaldino”, incaricato e pagato dall’amante della moglie. Lo scandalo tira un altro scandalo perché in complicità con Giuseppe Luciani c’è anche il cavalier Armati, ufficiale delle Guardie municipali. Ed è lui a pagare Pio Frezza e a spedirlo di notte nei locali di Via delle Coppelle. Il processo si celebra ai Filippini con la folla delle grandi occasioni, anche perché vengono chiamati a deporre nomi di primo piano, da Menotti Garibaldi a Felice Cavallotti a Costanzo Chauvet. Risultato, o meglio sentenza: ergastolo per tutti gli imputati. È il trionfo del gossip. Per i quotidiani è una manna, un evento che fa felici editori e direttori. Anche quelli del “Fanfulla” scrivono, ma senza esagerare. Per loro la politica è sempre il primo titolo. Sia essa interna o internazionale. Le corrispondenze dal fronte franco-prussiano aprono spesso il giornale. Ed è così anche per la nuova proposta di legge sugli abusi del clero, avanzata dal Guardasigilli Pasquale Stanislao Mancini. Un’idea che proprio non piace al “Fanfulla”. Nel mirino del giornale ci sono soprattutto i radicali. E il genero del ministro, il deputato Augusto Pierantoni è uno di questi. Bocciata la legge, il “Fanfulla” chiede le dimissioni del ministro della Giustizia.

Il “resocontista” del “Fanfulla” a Montecitorio nel maggio 1877 è Fedele Albanese e come Pierantoni è meridionale. L’articolo esce il 13 maggio. Scrive l’Albanese: “L’onorevole Pierantoni folleggia di settore in settore in cerca di colleghi curiosi. Ma nessuno lo interroga d’onde venga. Vi dirò io che viene dalla Puglia estrema dove ha fatto il difensore del processo Chiariatti, e che s’è fatto un grande onore nella pubblica discussione. In questa circostanza egli ha fatto sapere alla Corte e al pubblico che il conte di Cavour lo invitava alle sue feste. Feste che dovevano essere date a tutto beneficio dell’onorevole Pierantoni perché il Conte di Cavour per gli altri suoi amici, non ne dava mai. Ma con questi argomenti ha commosso certamente l’animo del magistrato”. Il sarcasmo manda su tutte le furie l’onorevole avvocato. E s’inizia una controversia difficile da risolvere a distanza di 125 anni. I giornali, all’unanimità, ne danno una versione; l’onorevole Pierantoni un’altra. Leggiamo su “la Capitale” di giovedì 17 maggio: “Durante la seduta di lunedì l’onorevole Pierantoni si è recato nella sala annessa alla tribuna della stampa dove ha proceduto a vie di fatto contro il redattore del giornale il ‘Fanfulla’ percuotendolo sul viso”. Aggressione dunque, e offesa alla libertà di stampa. Riferisce invece Pierantoni, in una cronaca sull’accaduto pubblicata per i suoi elettori del collegio di Santa Maria Capua Vetere e dal titolo assai agguerrito, “Della stampa disonesta”, Napoli 1877: “Le affermazioni del “Fanfulla” sono fasulle…, chiamato a spiegare le facezie sul dibattimento di Lecce, l’Albanese esibì una lettera privata nella quale era scritta una gravissima calunnia contro un personaggio rispettabilissimo della cui fama ho ragione di essere geloso e un subitaneo sdegno mi spinse a colpire nel viso l’Albanese, cosa che anche io deploro”. Toccata la mamma? La moglie, oppure la contessa Lara, al secolo Evelina Cattermole Mancini, la scapestrata scrittrice di romanzi popolari parente del parlamentare? Non lo sapremo mai. Ma la notizia fornita dal deputato venne in quattro e quattr’otto vagliata dai padrini nominati dai contendenti e ritenuta credibile dalle parti. Il duello si poteva fare ed era legittimo, considerata la gravità dell’offesa. Il verbale redatto dai padrini è chiaro: il 16 maggio si riuniscono i signori Corrado Tammaso-Crudeli e Francesco De Luigi, padrini del giornalista, e i deputati Barone De Renzis e Abele Damiani, rappresentanti del Pierantoni, per dichiarare che “col fatto che diè luogo alla sfida il signor Pierantoni non intese di esercitare alcuna violenza contro il rappresentante di un organo della pubblicità e se egli ricorse ad un atto di provocazione ciò seguì ad una comunicazione fattagli dal signor Albanese nella quale egli ravvisò un insulto a persona di sua intimità”.

Il giornalista e i suoi padrini, dunque, non smentiscono che all’origine vi sia un’offesa. E il verbale riferisce che venne deciso di tirare di sciabola. Lo scontro ebbe luogo la sera stessa in un luogo non precisato e si concluse rapidamente: tre attacchi del deputato e il giornalista è ferito all’avambraccio. Stop. Tutti a casa. Ma se l’offesa è molto probabile vi sia stata, cosa l’ha provocata? La domanda non è indifferente. Quelle parole Pierantoni le ha dette o no, al processo Chiariatti? E poi, scrivere le proprie impressioni sul comportamento di un deputato cos’è, lesa maestà?

Più in alto della politica e del dibattito sulla tassa sugli zuccheri, il “Fanfulla” il 18 maggio mette la notizia in apertura di giornale: “Ieri l’altro avvenne un duello fra l’on. Pierantoni e il signor Albanese, redattore del “Fanfulla”. Le circostanze e il modo che hanno preceduto e provocato questa partita d’onore determinarono i direttori dei giornali di Roma a tenere una riunione”. Di seguito l’elenco delle testate presenti all’incontro con i loro direttori: “l’Opinione”, il “Diritto”, la “Gazzetta d’Italia”, la “Gazzetta di Napoli”, “l’Italie”, la “Libertà”, la “Capitale”, la “Voce della Verità”, il “Popolo romano”, il “Bersagliere”, il “Dovere” e il “Fanfulla” naturalmente. E questo è solo l’inizio. L’assemblea è talmente animata che partorisce anche delle decisioni. Nel documento votato all’unanimità si esprime la speranza che “il signor Presidente della Camera accoglierà la rimostranza dei redattori parlamentari dei giornali”. Di seguito, tre risoluzioni con tanto di numeretto a fianco: “1°) È istituito un giurì d’onore permanente tra i rappresentanti della stampa; 2°) Ciascun rappresentante della stampa in Roma sarà tenuto a consultare il giurì prima di andare sul terreno per una questione di giornalismo; 3°) Per la formazione e per il regolamento del giurì sarà tenuta fra tutti i rappresentanti della stampa una riunione la sera del 20 maggio”.

Protesta, dunque, con tanto di assemblea plenaria. Il comunicato è firmato dai direttori dei quotidiani con la solidarietà dei corrispondenti del “Times”, “Daily News”, “Vossiche Zeitung”, “Standard”, “Morning Post” e “New York Times”. Manca il corrispondente della “Gazzetta di Mosca”, quel giorno fuori città. Rimedierà il giorno successivo con una lettera al “Fanfulla” per associarsi alla protesta e “difendere, ad un tempo, l’indipendenza del pensiero e il rispetto dovuto alla sua libera manifestazione”.

Poco sopra, in corpo 8, è messa in bella mostra una lettera di Francesco Crispi, mentre un trafiletto ci informa che il giorno prima sono stati arrestati a Roma “17 individui per risse, disordini e oziosità”. Il presidente della Camera, s’intuisce, è stato costretto ad intervenire ed attacca sostenendo di essere stato informato in ritardo dell’accaduto. E deplora. Deplora “l’atto violento”; deplora che il fatto “sia avvenuto nel palazzo del Parlamento”.

La lettera è pubblicata da tutti i giornali. Commenta il “Popolo romano” del 19 maggio: “I redattori parlamentari sarebbero stati molto grati all’onorevole presidente della Camera se avesse avuto la bontà di deplorare meno e assicurarli un po’ più sul soggetto delle loro proteste”. Scrive il direttore del “Fanfulla”, dopo aver suggerito a Crispi di rileggersi il brano “del reporter”, ripubblicato a mò di tormentone: “Dica il presidente se questo brano ecceda menomamente i limiti concessi alla polemica a modo, in qualsiasi giornale. Se egli mi dirà di sì, io dovrò fin d’ora, fin da questo numero chiedere perdono all’onorevole Crispi, perché di deviamenti simili sul “Fanfulla” ne troverà delle colonne intere tutti i giorni! Perché capirà egli stesso che l’incidente non può farci cambiare metodo”. Stessa musica sugli altri giornali. Come dire: i punti di vista possono essere tanti, ma il principio della libertà di stampa, e di critica, dev’essere tutelato.

Non è un caso infatti che la protesta coinvolga giornali molto diversi fra loro e assemblea dopo assemblea si arrivi nel dicembre del ’77 alla nascita dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana (Aspi). Primo presidente, viene eletto Francesco De Sanctis, da poco nominato Ministro della Pubblica Istruzione da Benedetto Cairoli. Prima sede, in via della Missione.

E Fedele Albanese? Il cronista ha talento ed è rispettato. L’anno successivo, con il ventisettenne Luigi Cesana, figlio del comproprietario del “Fanfulla”, partecipa alla fondazione di un nuovo giornale. Il primo ad essere concepito come impresa industriale. È l’8 dicembre 1878 quando esce il primo numero de “Il Messaggiero”, con la “i”. Un quotidiano che riusciva, come ricorda Olga Majolo Molinari, “a prosperare con la vendita giornaliera delle copie senza doversi basare sugli abbonamenti”. Motivi del successo: formato ridotto, larga tiratura, grande quantità di notizie e gusto per la polemica nei confronti degli aristocratici e delle classi dirigenti, indipendenza dai partiti. Ma questa è un’altra storia. Fedele Albanese è il primo direttore del “Messaggiero”. Una brevissima direzione, solo tre mesi.

Per lui un giornale senza un’anima politica, non è un giornale. Ed è per questo che il 1 novembre 1881 fonda “Il Monitore”, gazzetta ambiziosa, dalla vita difficile. Sono più i debiti delle copie vendute. L’ultimo numero esce listato a lutto, dedicato alla memoria del suo direttore che disperato per i debiti accumulati si è ucciso l’11 marzo del 1882.

E l’altro protagonista del duello che dà inizio alla “professione” del giornalista? Augusto Pierantoni viene eletto deputato per molte legislature e poi senatore. È un uomo colto, alto come un corazziere, ed è un fiero risorgimentale. È napoletano, ed è stato esule a Torino prima dell’Unità dove ha sposato Grazia Mancini, scrittrice e patriota figlia di Pasquale Stanislao Mancini al quale Massimo D’Azeglio offre la cattedra di diritto internazionale all’Università sabauda. Anche Pierantoni è un giurista e scrive molto di diritto romano, sulla giustizia internazionale, sulla pena di morte, sui moti risorgimentali. Si occupa di leggi sui tributi e dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti. È un buon oratore e in Parlamento è di quelli che si fanno ascoltare. Il 10 novembre 1888, nell’aula di palazzo Madama, Pierantoni prende la parola in difesa della legittimità del duello. La questione anima il Parlamento e Pierantoni in un enfatico discorso – “io parlo mezzo da soldato, mezzo da avvocato, mezzo da professore” – arriva a sostenere “che il duello è la sanzione, per quanto incerta, del galateo”.

E ancora: “È tutela del buon costume, educa il popolo al culto dell’onore, eccita e fortifica il sentimento del dovere, modera gli abusi”. Tutte virtù che piano piano stavano andando in soffitta. Pierantoni è un lucido figlio del suo tempo. Non è un caso che ricordando il duello con Fedele Albanese scriva che l’episodio “deliberò di formare un sodalizio tra pubblicisti onesti e dettare il galateo di questo ufficio”: “Si può aver fede che l’associazione, la quale è la maggior forza della società moderna, ricondurrà la stampa tralignata al suo maestrato di libertà. Quando questa promessa sarà mantenuta, voi potrete lodarvi che il vostro rappresentante abbia data l’occasione al rinnovamento di quell’ufficio, che con frase vivissima è detto “il quarto potere dello Stato”.

David Sassoli

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