I giudici della terza sezione penale della Corte d’Appello di Napoli (Giovanni Carbone, presidente, Davide Di Stasio, relatore, Francesco Gesuè Rizzi Ulmo), confermando la sentenza di primo grado, hanno ribadito che fu il potente e sanguinario boss mafioso di Pignataro Maggiore, “don” Vincenzo Lubrano – consuocero del mammasantissima di Marano di Napoli, Lorenzo Nuvoletta, e alleato di ferro dei “corleonesi” di Totò Riina – a volere nel 2003 la cacciata del giornalista Enzo Palmesano dal quotidiano locale “Corriere di Caserta”, il cui direttore responsabile era all’epoca Gianluigi Guarino.
Le accuse formulate dai pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Giovanni Conzo e Liana Esposito, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Operazione caleno” del 2009 contro la cosca Lubrano-Ligato, hanno trovato quindi una ulteriore conferma dopo la sentenza di primo grado del 28 novembre 2014 che era stata emessa dalla seconda sezione penale collegio “C” del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (giudici Maria Francica, presidente, Chiara Di Benedetto, estensore, Elena Di Bartolomeo) condannando a due anni di reclusione (pena sospesa) un nipote acquisito di “don” Vincenzo Lubrano, Francesco Cascella, imputato di violenza privata con l’aggravante camorristica ai danni del giornalista Enzo Palmesano. Delle due parti offese (Palmesano e Guarino) solo Enzo Palmesano si era costituito parte civile, assistito dall’avvocato Salvatore Piccolo di Luigi, con studio legale in Sparanise. L’ex direttore responsabile del “Corriere di Caserta” Gianluigi Guarino, invece, non solo non si era costituito parte civile contro l’imputato Francesco Cascella ma – sentito durante il processo quale parte offesa e testimone – aveva incredibilmente sostenuto che Enzo Palmesano non era stato cacciato dal “Corriere di Caserta”, di cui era un collaboratore esterno, per volontà del capomafia pignatarese, nonostante le accuse della Direzione distrettuale antimafia fossero corroborate da schiaccianti risultanze investigative, tra cui fondamentali intercettazioni ambientali captate dai carabinieri del Comando provinciale di Caserta nella villa-bunker di Lubrano.
In primo grado Francesco Cascella era stato condannato altresì al pagamento delle spese e al risarcimento del danno alla costituita parte civile Enzo Palmesano; era stata stabilita infine una provvisionale immediatamente esecutiva a favore di Palmesano di cinquemila Euro. Confermando la sentenza di primo grado, la Corte d’Appello ha condannato l’imputato Francesco Cascella al pagamento delle ulteriori spese processuali e delle spese sostenute dalla costituita parte civile. Le motivazioni della sentenza d’appello saranno depositate entro novanta giorni.
Nell’inchiesta le intercettazioni ambientali si sono rivelate una prova schiacciante a carico di Francesco Cascella e dello zio Vincenzo Lubrano, quest’ultimo anch’egli all’epoca iscritto nel registro degli indagati per lo stesso reato (come si è detto, la violenza privata con l’aggravante mafiosa) ma non comparso quale imputato in questo processo perché nel frattempo defunto. Il pubblico ministero di udienza, sostituto procuratore generale Maria Di Addea – che ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado – ha posto l’accento su una intercettazione ambientale in particolare, quella in cui il boss Vincenzo Lubrano accomunava la figura di Enzo Palmesano all’esperienza tragica di un altro giornalista d’inchiesta, Giancarlo Siani, assassinato per volontà dei Nuvoletta, imparentati con il boss pignatarese. Come è noto, nel summit mafioso che si tenne a Marano di Napoli per decidere l’assassinio di Giancarlo Siani partecipò, unitamente ai Nuvoletta, il boss Gaetano Lubrano (nel frattempo defunto), marito di una cugina degli stessi Nuvoletta e fratello di “don” Vincenzo Lubrano. Dall’appena citata intercettazione ambientale si evince che proprio le condanne all’ergastolo che avevano colpito il clan Nuvoletta per l’omicidio del giornalista Giancarlo Siani avevano probabilmente fermato la mano assassina di Vincenzo Lubrano, preoccupato dalla certezza che l’omicidio di un altro giornalista investigativo (appunto Enzo Palmesano) avrebbe portato alla completa disarticolazione della famiglia mafiosa a seguito delle indagini che sarebbero state avviate dalla Direzione distrettuale antimafia sulla cosca che tiene in pugno Pignataro Maggiore, famigerata città conosciuta quale “Svizzera dei clan”. Lubrano scelse (per eliminare Enzo Palmesano, facendolo cacciare dal quotidiano cui collaborava) la soluzione mafiosa meno pericolosa, comoda per sé e per il suo clan: mandò il suo messaggio intimidatorio all’allora direttore del “Corriere di Caserta” – come testimoniato dalle intercettazioni ambientali nella villa-bunker di Lubrano – tramite Francesco Cascella. E quella di “don” Vincenzo Lubrano era evidentemente (come nel film “Il Padrino”) una “proposta che non si poteva rifiutare”. Effettivamente – come era nei desideri di Lubrano e del suo messaggero Cascella – l’allora direttore del “Corriere di Caserta” pose fine alla collaborazione di Enzo Palmesano, le cui inchieste giornalistiche davano fastidio alla camorra, erano una spina nel fianco della cosca mafiosa pignatarese. Francesco Cascella è stato assistito anche in appello dall’avvocato Giuseppe Romano, storico difensore di “don” Vincenzo Lubrano tra l’altro nel processo per l’omicidio di Franco Imposimato (fratello del magistrato Ferdinando Imposimato) dove il boss pignatarese fu condannato all’ergastolo unitamente al cassiere della mafia siciliana a Roma, Pippo Calò, capo della “famiglia” di Porta Nuova a Palermo e alleato dei “corleonesi”.
Il processo d’appello ha anche rappresentato l’occasione per sottolineare – e lo ha fatto con grande convinzione e parole di aperto elogio il sostituto procuratore generale Maria Di Addea – il notevole spessore giuridico e la stringente logica della complessa sentenza di primo grado, una pietra miliare nella lotta alle cosche camorristico-mafiose soprattutto per quanto riguarda i gravissimi rischi cui è esposto il giornalismo d’inchiesta nelle aree dove i clan imperano. Dal canto suo, il legale di parte civile, avvocato Salvatore Piccolo di Luigi – storico difensore di Enzo Palmesano nelle battaglie legali, sempre e tutte vittoriose, contro la valanga di querele per diffamazione a mezzo stampa di cui è stato oggetto – ha voluto anch’egli cominciare con un elogio alla “monumentale sentenza di primo grado”, di cui ha chiesto ovviamente la conferma, per poi sottolineare che il giornalista Enzo Palmesano era entrato nel mirino di un potente sistema criminale mafioso perché con le sue inchieste giornalistiche era diventato un costante punto di riferimento per i cittadini onesti di Pignataro Maggiore e dell’intero Agro caleno, per i giornalisti d’inchiesta e per quanti combattono la camorra fornendo con le sue coraggiose denunce anche spunti per indagini della magistratura e delle forze dell’ordine. Il legale di parte civile ha inoltre smantellato ancora una volta, come già aveva fatto nel processo di primo grado – con penetranti argomentazioni in punto di fatto e di diritto –, tutte le varie ipotesi (di Guarino e della difesa di Cascella) che avrebbero voluto essere alternative sulla cacciata d Enzo Palmesano dal “Corriere di Caserta”, evidenziando che l’unica pista giusta era quella della ritorsione camorristica, come peraltro dimostrato dalla indagini della Direzione distrettuale antimafia e dalle sentenze. “Enzo Palmesano, vittima di reato di tipo mafioso – ha concluso l’avvocato Salvatore Piccolo di Luigi – ha rischiato di essere ucciso perché “dava fastidio” allo stesso boss condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello del giudice Imposimato”. Come si ricorderà al “caso Palmesano” e alla sentenza di primo grado (ritenuta di importanza storica anche negli ambienti della magistratura antimafia) ha più volte dedicato articoli e prese di posizione lo scrittore di “Gomorra” Roberto Saviano.
(Fonte: http://pignataronews.myblog.it)