Lo stato di agitazione, gli scioperi di tante redazioni giornalistiche, i numerosi licenziamenti nei confronti di cronisti, il venire meno delle garanzie e delle tutele da più parti, dimostrano la consapevolezza da parte di certi editori e cordate economiche che il mondo dell’informazione oggi è più debole rispetto al passato. Ci si può permettere di ‘deportare’ i giornalisti dalla redazione di Roma a quella di Milano senza colpo ferire, dall’oggi al domani, e chi non ci sta ha un licenziamento in tronco. In barba al Contratto Nazionale di Lavoro, in barba a tutte le più elementari tutele dei lavoratori e dei minimi diritti. Dal Messaggero di Padova –licenziamento di 8 giornalisti- ai licenziamenti di SKY – tutte e tre donne – i 16 licenziamenti annunciati dalla Reuters in Italia –conti in utile- fino ad arrivare a questi giorni con l’Askanews, scioperi annunciati per la minaccia di ulteriori 27 esuberi. C’è anche un ex direttore –quello del Sole 24 ore, Napoletano- che chiede i danni al comitato di redazione per un comunicato, pretende 750.000 euro, una minaccia grave. Solo alcuni dei numerosi casi.
Che cosa sta accadendo nel mondo dell’informazione in un Paese distratto dal gioco delle parti politiche dove i ruoli tra governo e opposizione a volte si confondono in alleanze nebulose e indecifrabili anche nei luoghi dell’informazione per eccellenza? Un Paese catalizzato dalla guerra ai disperati – profughi e migranti- tra i venti di nazionalismi italiani e internazionali? Una politica di governo repressiva ‘degli ultimi’ che fuggono dai paesi in via di sviluppo poveri e in guerra, un’informazione italiana scarna di esteri che non spiega affatto che cosa stia accadendo nel resto del mondo: dallo Yemen all’Africa, dalla Somalia al Sudamerica. Il ridimensionamento informativo non si può leggere solo con i discorsi da ragionieri oppressi dai conti in rosso –che spesso non ci sono- dalle difficoltà economiche, dalla crisi dell’editoria e dagli esuberi. No. Mancano altre coordinate per collocare il problema. C’è anche un bisogno urgente di omologazione, di pensiero unico, di chiamata generale al ‘partito globale di chi sa stare al mondo’, dove a farne le spese sono anche e proprio i professionisti delle domande incalzanti, delle inchieste scomode, dell’informazione che si interroga. A proposito, dove sono le inchieste?
La metafora è quella del Messaggero di Padova: i frati che vogliono sostituirsi agli 8 giornalisti licenziati! Se in Italia i giornalisti non servissero più? Se diventassero sempre più deboli e precari, sempre di meno e meno garantiti? Se il Paese stesse diventando intollerante alle domande e alle inchieste? Se bastassero dei semplici verbalini a contentare i Potenti per una informazione di maniera? Se per fare brillanti carriere senza regole nelle redazioni bastasse obbedire ai capi, non ritirare mai la firma di fronte alle censure, se il sindacato diventasse ‘amicone’ degli editori, che cosa accadrebbe? C’è aria di smobilitazione. L’Italia si trasformerebbe in regime. Il giornalismo e i giornalisti sono necessari alla democrazia con la D maiuscola. Non la democrazia come Malta dove una collega, giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia è stata fatta saltare in aria in un clima al vetriolo da parte del governo che non tollerava le sue inchieste investigative centrate sulla corruzione di quel Potere che tutto controlla e che ha in mano le TV dell’Isola. Un omicidio del quale non conosciamo ancora i mandanti. Una giornalista che è stata isolata perché scriveva criticamente.
A Malta dove non esiste sindacato dei giornalisti e chi è indipendente è al centro di minacce e campagne di odio fino all’aggressione fisica per strada. Il clima politico di rispetto per le domande e per chi le pone per professione, è sale di un Paese europeo. Il rispetto è dovuto. E le storie professionali, i curricula dovrebbero essere tenuti in grande considerazione piuttosto che- come sta accadendo- sempre più considerati ‘reperti storici’.
Uno dei maestri del giornalismo Enzo Biagi, insegnava che il mestiere del giornalista è un servizio pubblico come quello dell’acquedotto: a casa della gente si deve portare acqua pulita, e se si inondassero le case di acqua inquinata che cosa accadrebbe?
Ho il dubbio, il sospetto che tanti indicatori ci stiano dicendo che in Italia si vogliano tagliare le unghie ai contenuti giornalistici seri e autorevoli, che dietro certi licenziamenti si voglia ridimensionare il numero di informazioni -le agenzie ad esempio- ho il serio e grave sospetto che infastidisca il numero di giornalisti che ‘cerca’ le notizie, che pone osservazioni critiche, che scavi, che incalzi. Quell’esercito di domande che ogni giorno va all’assalto dei problemi sociali, della politica, delle mafie, della corruzione, quelle domande che fanno le pulci ai Potenti. Oggi si cerca di stringere il cerchio attorno a quel potere delle domande. Una pressione verso la normalizzazione dei contenuti e della rappresentanza sindacale. Immaginate il sindacato dei giornalisti che invece di tutelare la base diventa interprete dei vertici di un’azienda di informazione?
Un altro maestro del giornalismo Indro Montanelli diceva di sé e della capacità critica: “La fama che mi sono fatto è quello di uno spietato cecchino all’agguato delle celebrità per colpirle a tradimento nei loro punti più deboli”.
In realtà oggi stiamo rischiando il diritto all’esistenza in vita, altro che ‘cecchini’ delle celebrità per il diritto di critica! Quanto il giornalismo è stato minato nella sua capacità critica? Quanta ricattabilità esiste nei confronti di chi pone le domande se il suo posto di lavoro è a rischio? Se è minacciato o aggredito o non tutelato?
Le garanzie sindacali spesso sono venute meno nelle redazioni, soprattutto alla Rai – su questo tema dobbiamo avere il coraggio di interrogarci fino in fondo- e i colleghi hanno dovuto trasferire la proprie garanzie in un Tribunale: di quante cause le redazioni sono piene? Se il sindacato dei giornalisti fosse stato forte e autorevole molti contenziosi si sarebbero risolti in redazione e non in un’ aula di Tribunale.
E’ sul sindacato all’interno delle redazioni che bisogna lavorare: una rappresentanza sindacale che difenda il Contratto Nazionale di Lavoro giornalistico con le unghie e con i denti, non quel misero sindacato dei selfie che punta sugli slogan, sull’immagine e non sulla concretezza delle conquiste. I colleghi minacciati, licenziati, mobbizzati, censurati, emarginati, precari vanno difesi e garantiti perché diversamente noi non leggeremmo più sui giornali i contenuti dei quali si fanno garanti, non vedremmo più in tv le loro inchieste libere e autonome.
Le aziende e gli editori sono oggi più forti che in passato, ma i giornalisti, la base dei giornalisti, rischia di acquisire lo status dei ‘nuovi poveri’ mentre alcuni, pochi e garantiti saranno sempre più casta. E’ per questo che oggi siamo chiamati a interrogarci su quale ruolo e conformazione il sindacato deve avere se non quello della difesa del Contratto che rischia di fare ogni volta passi indietro. Un sindacato dei giornalisti forte e deciso, concreto che chiami le cose con il loro nome è la garanzia della democrazia.
Maria Grazia Mazzola