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giornata della memoria: ricordiamo i colleghi morti per aver difeso libertà e democrazia

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PER NON DIMENTICARE: il 2 febbraio prossimo ricorre il 75° anniversario della morte dei due trentenni giornalisti partigiani del foglio clandestino “Bandiera Rossa” e testimoni del loro tempo: Enzio Malatesta (medaglia d’oro al valor militare alla memoria) e Carlo Merli, fucilati il 2 febbraio 1944 a Roma a Forte Bravetta dopo essere stati condannati a morte da un tribunale germanico.

 

A Forte Bravetta, costruito tra il 1877 al 1883 in via di Bravetta 740 fra la via Aurelia e la via Portuense, su una superficie di circa 10 ettari, vennero eseguite 69 fucilazioni durante l’occupazione tedesca fra il 1943 e il 1944, per ordine del Tribunale militare di Guerra germanico e per mano della Gestapo di Herbert Kappler ed altre 5 dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944.

Tra i tanti che affrontarono il plotone d’esecuzione delle SS figurano anche don Giuseppe Morosini (celebre fu la commovente interpretazione di Aldo Fabrizi che interpretò il suo ruolo nel film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini), Fabrizio Vassalli (fratello di Giuliano, scomparso ex presidente della Corte Costituzionale e ministro della Giustizia), nonché Augusto Latini, Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Romolo Jacopini.

Sulla lapide che ricorda il sacrificio dei partigiani, tra i quali Carlo Merli ed Enzio Malatesta, si legge: “A imperituro ricordo degli eroici patrioti che durante l’occupazione nazista in questo Forte furono fucilati accendendo con il sublime sacrificio della loro vita la fiaccola della Resistenza nazionale – Roma nel XXIII Anniversario della Liberazione – Memore e riconoscente”.

Tra le azioni compiute da «Bandiera rossa» c’è l’assalto alla scorta tedesca del camion che nella notte del 30 novembre ’43 trasportava undici partigiani destinati ad essere fucilati nel Forte Bravetta. Furono liberati dopo un combattimento. Comandava la squadra partigiana l’ex maresciallo dell’aeronautica Vincenzo Guarnera che aveva assunto come nome di battaglia Tommaso Moro. Malatesta venne arrestato in casa dalle SS assieme al gruppo dirigente di Bandiera Rossa e processato il 28 gennaio 1944 dal Tribunale militare germanico. Malatesta fu torturato e poi fucilato il 2 febbraio ’44 a Forte Bravetta con Merli, Gino Rossi (architetto e tenente colonnello degli alpini che si faceva chiamare Bixio) e altri otto partigiani: Romolo Jacopini, Ettore Arena, Benvenuto Baviali, Branko Bichler, Augusto Parodi, Ottavio Cerulli, Guerrino Sbardella e Filiberto Zolito. Il plotone della PAI sbagliò intenzionalmente i bersagli. Un ufficiale tedesco uccise poi con un colpo alla nuca gli scampati alla raffica. Lo
stesso giorno davanti alla base di via Giulia, per strada, venne arrestato Antonello Trombadori, comandante dei GAP Centrali, ma riuscì a salvarsi grazie al silenzio dei suoi compagni arrestati che, nonostante le sevizie, non ne rivelarono l’ identità.

Nel 1945 vi furono fucilati dei criminali di guerra condannati dall’Alta Corte di Giustizia.

Fino al settembre 2009 Forte Bravetta apparteneva all’amministrazione militare poi é passato al Demanio e quindi al Comune di Roma ed é diventato il “Parco dei martiri” ed é stato aperto al pubblico. In occasione della sua inaugurazione il Sindaco Gianni Alemanno vi piantò un ulivo, proveniente direttamente da Gerusalemme, dono del KKL – Fondo Nazionale Ebraico.

FOTO E DOCUMENTI SU FORTE BRAVETTA

 

Chi erano Merli e Malatesta

Enzio Malatesta, toscano di nascita, milanese d’adozione, era nato a Apuania (Massa Carrara) il 22 ottobre 1914. Era figlio di Alberto Malatesta, ex deputato socialista di Novara. Nel 1938 si era laureato a Milano ed aveva intrapreso l’insegnamento al Liceo “Parini”. Fu anche direttore della rivista Cinema e Teatro. Nel 1940 si trasferì a Roma, dove fu assunto come capo redattore del quotidiano Giornale d’Italia. Con l’occupazione della Capitale decise di entrare nelle file del movimento “Bandiera Rossa” e fu tra gli organizzatori, nel Lazio, delle cosiddette “Bande esterne”. Catturato dalle SS tedesche l’11 dicembre 1943 ed accusato di aver organizzato formazioni armate, si assunse coraggiosamente ogni responsabilità, scagionando i compagni. Processato, fu condannato a morte e portato di fronte al plotone di esecuzione a Forte Bravetta.

Ad Enzio Malatesta fu concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria( cliccare su: http://www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnorificenze.aspx?decorato=13283) perché: “Giornalista di pura fede votò la sua giovane esistenza alla causa della libertà. La sua casa fu covo di cospiratori decisi ad ogni lotta contro l’oppressore. Anima di audaci manipoli, costituì importanti formazioni partigiane, e ideò, organizzò e diresse arditi colpi di mano ai danni del nemico, sia in Roma che nel Lazio. Arrestato dalle SS tedesche quale capo di formazioni armate, assunse per sé tutta la responsabilità, scagionandone i compagni e, respingendo ogni tentativo per ottenere clemenza, ascoltò con ciglio fermo la condanna a morte dell’iniquo tribunale di guerra. Con sprezzante sorriso, che fu estrema sfida al nemico usurpatore di ogni diritto sulla vita dei cittadini italiani, affrontò il plotone di esecuzione e cadde gridando:« Viva l’Italia ». Roma, Forte Bravetta, 2 febbraio 1944.”

Carlo Merli era nato a Milano il 2 gennaio 1913. Aderente al “Movimento Comunista d’Italia – Bandiera Rossa”, fu arrestato dai tedeschi a Roma l’11 dicembre 1943. Rinchiuso nella casa di via Tasso, diventata tristemente nota per le efferatezze che vi si compivano, il giornalista fu poi condotto davanti a un tribunale nazista che lo condannò a morte per “partecipazione a banda armata”. Merli fu fucilato a Forte Bravetta – che già il regime fascista aveva prescelto per le esecuzioni capitali – insieme al suo amico Enzio Malatesta.

 

Resistenza, memoria e territorio
(Articolo scritto nel 2005 dallo scomparso giornalista Massimo Rendina all’epoca presidente dell’ANPI di Roma)

Il forte Bravetta è una delle quindici imponenti costruzioni militari realizzate a Roma nell’arco di quattordici anni, tra il 1877 (qualche giorno dopo che Vittorio Emanuele Il aveva preso dimora al Quirinale) e il 1891, per dotare la città di un sistema protettivo che, considerate le capacità delle artiglierie, non consentisse al nemico di colpire le mura che la circondavano, trattenendolo con massicci baluardi, allora in aperta campagna, distanti tre o quattro chilometri l’uno dall’altro, con il tiro incrociato delle batterie sui temuti assalitori, immaginati soprattutto provenienti dal mare. Per costruire il forte Bravetta ci vollero sei anni, dal 1877 al 1883, occupando un’area, tra le vie Aurelia e Portuense, di quasi centodieci mila metri quadrati (10,6 ettari). Ma, appena terminati i lavori di questo e degli altri forti, si scoprì che non servivano allo
scopo per il quale erano stati progettati. La tecnologia aveva nel frattempo modificato la gittata dei cannoni, nuove concezioni dell’arte militare privilegiavano la mobilità degli attaccanti per aggirare gli ostacoli abbandonando la strategia millenaria degli assedi.

Ai forti rimase solo la denominazione che ancora conservano, non la funzione. Diventarono caserme e depositi. Anche il Forte Bravetta, ma con una prerogativa in più: quella di luogo prescelto dal regime fascista – cinquantacinque anni dopo essere stato ultimato, a cominciare dal 17 giugno 1932 – per le esecuzioni capitali. Vi furono tradotti, per essere fucilati, molti patrioti e qualche grassatore, anche due uomini, definiti anarchici, Bovone e Sbardellotto mandati a morte perché confessi di aver voluto uccidere Mussolini, senza, peraltro, neppure tentarlo; altri per “intelligenza con lo straniero”, cioè spie. Tra questi una donna e un diplomatico tedesco. Il numero più consistente dei giustiziati (ma meglio sarebbe dire assassinati) si ebbe durante i 9 mesi di occupazione nazifascista della capitale, perlopiù partigiani, alcuni trascinati, sollevati a braccia, davanti ai plotoni di esecuzione (composti da italiani, militi della PAI, della Guardia di Finanza, poliziotti e persino vigili metropolitani) perché impossibilitati a camminare – come accadde allo studente universitario Giorgio Labò per le torture subite in via Tasso, dove presiedeva Kappler, o nelle “pensioni” Jaccarino e Oltremare, sedi della polizia speciale comandata da un italiano, Pietro Koch, anche lui fucilato a Forte Bravetta all’indomani della liberazione di Roma, condannato dal Tribunale istituito contro i criminali fascisti, autori di delitti e sevizie, che condannò alla pena capitale altri quattro collaborazionisti: Pietro Caruso, Federico Scarpato, Francesco Sabelli e Armando Testorio, quest’ultimo fucilato il 24 maggio del 1945 mentre il Paese era ancora percorso dall’ondata emotiva che coniugava insieme pace e libertà.
I partigiani fucilati a Forte Bravetta furono 66. Ma non tutti i combattenti per la libertà passati per le armi dai nazifascisti furono uccisi nel forte. Altri lasciarono la vita nei luoghi di tortura, altri ancora, catturati quasi sempre in seguito a delazioni per denaro, vennero finiti per strada o nei cortili delle caserme a colpi di mitra.
Le modalità delle fucilazioni nel Forte Bravetta durante l’occupazione nazifascista seguivano un rigido rituale. Il condannato era fatto sedere su una sedia con lo schienale davanti, le spalle rivolte ai carnefici, le mani legate per i polsi con un lacciolo. Dopo la scarica di fucileria l’ufficiale medico, obbligatoriamente tedesco, constatava se era avvenuta o no la morte. In ogni caso dava il colpo di grazia alla nuca con la pistola. Infine subentrava un sacerdote a benedire la salma. Tutto si svolgeva in pochi minuti, quasi sempre alle prime luci del giorno. I cadaveri erano subito dopo trasportati al Verano privi di segni di identificazione per ordine perentorio del comando germanico.

Si deve ad un gruppo di inumatori se, sfidando la polizia collaborazionista e la Gestapo, fu possibile, avvenuta la liberazione di Roma, trarre i resti dalle fosse comuni ridando loro identità e pietosa sepoltura.
Questa pubblicazione, fermamente voluta dalla XVI Circoscrizione del Comune di Roma, che l’ha affidata all’ANPI, associazione prescelta per il progetto presentato a seguito di un bando di concorso, risponde così all’esigenza largamente sentita di dare un significato più consono – un’anima si direbbe – a luoghi e manufatti conosciuti solo superficialmente mentre fanno parte a pieno titolo della storia della città. Da ciò la necessità di compiere indagini e ricerche quando manchino riferimenti sicuri e le notizie siano carenti o incomplete. Tale incombenza per quanto riguarda il Forte Bravetta – che è il territorio circoscrizionale – se l’è assunta svolgendola con scrupolo, intelligenza e professionalità, raggiungendo anche risultati storiografici di rilievo, Augusto Pompeo, impegnato nelle attività dell’Archivio di Stato di Roma, con l’ausilio di due giovani appassionati scopritori di documenti, Luisa Saveri e Dario Scatolini. Ne è sortita un’opera apparentemente semplice per compendio e dimensione, frutto però di un lungo e anche difficile lavoro, perché per ciascuna delle persone considerate per il loro dramma consumato sugli spalti del forte – c’è che era senza un passato, venuto come dal nulla e s’è dovuto scoprirlo – è stato necessario sfogliare faldoni, consultare registri, riprendere o acquisire testimonianze orali, estrarre da scaffali e da materiali, anche fortunosamente recuperati, vicende e situazioni da riassumere, confrontare, verificare prima di strutturare il racconto informativo.

Forte Bravetta si presenta, con ciò, a parte il carattere architettonico, luogo emblematico, da conservare alla città, alla comunità e valorizzare, evitandone il decadimento, l’uso improprio e forse la distruzione. Auspicio che davvero condividiamo con gli amministratori della Circoscrizione e i curatori di questa pubblicazione che vuol essere prima di tutto un contributo alla verità storica e il suo rivivere di generazione in generazione.

Massimo Rendina

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