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Cassazione annulla carcere per diffamazione

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Per la prima volta dopo la decisione interlocutoria della Corte Costituzionale del 26 giugno scorso la Cassazione ha annullato la condanna ad 8 mesi di carcere senza condizionale inflitta ad un giornalista calabrese per diffamazione. La decisione n. 26509 del 22 settembre 2020 della 5^ sezione penale della Suprema Corte, scaricabile dal sito http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20200922/snpen@s50@a2020@n26509@tS.clean.pdf , riveste particolare importanza in attesa della riforma in Parlamento che tra breve sarà esaminata dall’aula di palazzo Madama dopo essere stata approvata dalla Commissione Giustizia del Senato. 

Protagonista della vicenda é il giornalista di Cosenza, Gabriele Carchidi, direttore del giornale online Iacchite.com, che vanta un record difficilmente uguagliabile: é stato infatti sottoposto sinora a ben 179 processi per diffamazione a mezzo stampa ed é stato già condannato 17 volte in primo grado a pene detentive per complessivi 8 anni e mezzo di carcere (101 mesi), senza sospensione condizionale della pena. I dati sono stati rivelati da Ossigeno per l’informazione durante un convegno sull’impunità promosso in Senato il 25 ottobre 2019.

Carchidi non é però andato in carcere perché sono ancora in corso i processi di appello e i ricorsi in Cassazione. E proprio in uno di questi processi il 9 luglio scorso il suo difensore, avvocato Nicola Mondelli, ha invocato l’applicazione delle sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo che a partire dal 17 dicembre 2004 (caso Cumpănă e Mazăre contro Romania) hanno costantemente circoscritto a casi del tutto eccezionali la possibilità del carcere alla diffamazione che implichi un’istigazione alla violenza o che convogli messaggi d’odio. La Suprema Corte ha accolto queste tesi ed ha annullato la condanna ad 8 mesi di carcere trasmettendo di nuovo l’incartamento processuale alla Corte d’appello di Catanzaro che dovrà rimodulare il trattamento sanzionatorio. 

La Cassazione, presieduta da Maria Vessichelli, ha preso in particolare atto della recente decisione n. 132 con cui tre mesi fa i giudici di palazzo della Consulta hanno rinviato la loro sentenza definitiva a giugno 2021 per dare tempo al Parlamento di varare finalmente una riforma complessiva della diffamazione attesa ormai da più di 40 anni.  Come é noto la Corte Costituzionale in un clima di «leale collaborazione istituzionale» ha auspicato la previsione di sanzioni penali non detentive, di rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica) e di efficaci misure di carattere disciplinare. 

Secondo gli ermellini del “Palazzaccio” di piazza Cavour è evidente che la decisione dell’Alta Corte di piazza del Quirinale “fornisce una traccia esegetica di grande rilievo, che non può essere trascurata nell’ottica di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del tema del trattamento sanzionatorio agitato dal ricorrente. Secondo la direttrice segnata dal quadro normativo e da quello giurisprudenziale evocato dalla Consulta ed in attesa delle determinazioni del legislatore e di quelle, eventuali, della Consulta stessa, allo stato la scelta di applicare la pena detentiva non può che passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato; ciò allo scopo di apprezzarne – o meno – l'”eccezionale gravità” così come delineata dai precedenti sopra riportati, in presenza della quale sarebbe consentita l’applicazione della pena detentiva. Se questa è la valutazione a farsi, è evidente che si tratta di una decisione che, implicando giudizi concernenti il merito della regiudicanda, spetta al Giudice di merito, il quale dovrà decidere se la meritevolezza della pena detentiva, peraltro non condizionalmente sospesa, discenda dall’inquadramento delle notizie divulgate dagli articoli pubblicati e reputate diffamatorie nell’ambito di quelle di particolare gravità per cui potrebbe ancora trovare applicazione la reclusione”.  

 Pierluigi Franz 

LA SENTENZA

RITENUTO IN FATTO 

1. La sentenza impugnata è stata emessa il 15 marzo 2019 dalla Corte di appello di Catanzaro, che ha confermato la decisione del Tribunale di Cosenza che aveva condannato Giuseppe Carchidi, direttore responsabile della testata “Cosenza sport”, ad otto mesi di reclusione per diffamazione aggravata continuata a mezzo stampa ai danni: 

– (capo A) di tre Ufficiali dei Carabinieri, il Colonnello Francesco Ferace – Comandante Provinciale di Cosenza – il Tenente Colonnello Vincenzo Franzese – Comandante del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Cosenza – il maggiore Paolo Lando – Comandante del Nucleo investigativo dell’anzidetto reparto Operativo; 

– (Capo B) del Maresciallo Tommaso Cerza, in servizio presso il Nucleo Investigativo di cui sopra. 

I reati sarebbero stati commessi in altrettanti articoli, pubblicati il 15, il 22, il 29 ottobre ed il 5 novembre 2012 sulla testata diretta da Carchidi, due dei quali senza firma e due firmati con un acronimo, riguardanti: 

– il trasferimento, ricondotto alla volontà dei tre ufficiali/persone offese sopra menzionati, di alcuni sottufficiali dipendenti che, in occasione delle indagini relative alla cattura di un latitante, avevano segnalato la possibile complicità con quest’ultimo del loro collega Tommaso Cerza, 

– nonché la circostanza che i sottufficiali avessero le prove di detta complicità, servita a rivelare al pericoloso latitante la presenza di microspie installate per catturarlo e che, nonostante ne avessero messo a parte i superiori, nulla era stato fatto e, anzi, detti superiori avevano omesso o ritardato le ulteriori informative di competenza. 

2. Ricorre avverso detta sentenza l’imputato con due distinte impugnative a firma dei due difensori. 

3. Il ricorso dell’Avv. Nicola Mondelli si compone di due motivi. 

3.1. Il primo motivo di ricorso deduce «errata imputazione e qualificazione giuridica del reato» perché l’imputato era stato condannato quale autore degli articoli, mentre si trattava solo del direttore della testata e gli scritti erano di un anonimo mai individuato; donde Carchidi andava assolto per non aver commesso il fatto e gli atti trasmessi in Procura affinché si procedesse nei confronti degli autori degli articoli nonché nei riguardi del ricorrente per omesso controllo ex art. 57 cod. pen. A quest’ultimo proposito, nel ricorso si legge che in questa sede non è possibile né una riqualificazione né può ritenersi che Carchidi fosse stato chiamato a rispondere anche nella veste di direttore, perché la lettura del capo di imputazione evidenzia che l’imputato era stato tratto a giudizio come autore degli scritti. 

3.2. Il secondo dei motivi di ricorso lamenta l’errata determinazione della pena per violazione dell’art. 133 cod. pen. per avere inflitto una pena troppo severa in rapporto alla gravità di fatti, cioè la pena detentiva di otto mesi di reclusione e non quella pecuniaria, peraltro non condizionalmente sospesa. 

L’inflizione di una pena detentiva – assume il ricorrente – sarebbe in contrasto con l’art. 10 CEDU. 

4. Il ricorso sottoscritto dall’Avv. Giovanni Cadavero consta di un solo motivo, che denunzia violazione di legge e vizio di motivazione. Esordisce il ricorrente assumendo che la sentenza impugnata non avrebbe dato riscontro ai motivi di appello. La versione dei fatti delle persone offese valorizzata dal Giudice di prime cure era capziosa, non corrispondente alla realtà e quantomeno imprecisa. A dispetto di quanto dichiarato dalle persone offese, la deposizione (di cui vengono riportati stralci) dei Marescialli Lupo e Redavid – due di quelli coinvolti nel trasferimento oggetto nell’articolo – aveva chiarito che le indagini per la cattura del latitante Lanzino loro affidate avevano fatto registrare grandi progressi. A dispetto di ciò, nell’aprile 2011, il tenente Colonnello Ferace, in maniera del tutto autonoma, aveva istituito un altro gruppo di indagine, con a capo il Maresciallo Cerza. Il nome di quest’ultimo era però stato captato in una conversazione del 17 maggio 2011 e ciò avrebbe reso necessario attuare un’indagine interna al Comando Provinciale al fine di comprendere se Cerza fosse coinvolto nella scoperta delle microspie a casa della compagna del latitante che intanto si era registrata. Tale inchiesta non era stata avviata e della vicenda Cerza non era stato informato il pubblico ministero della D.D.A. che si occupava delle indagini ma, anzi, il gruppo investigativo che era sulle tracce di Landino era stato smantellato; ciò era accaduto dopo che il Luogotenente De Cello, il Maresciallo Lupo, il Maresciallo Redavid e l’Appuntato Greco avevano redatto un’annotazione diretta al pubblico ministero onde spiegare le ragioni del distacco delle apparecchiature intercettive. Le ragioni di opportunità che Ferace aveva indicato come alla base del trasferimento non erano credibili, sia quanto alla pochezza dei risultati investigativi della squadra, che alla carenza di organico che detto trasferimento sarebbe servito a fronteggiare. I trasferimenti erano provvisori, sostanzialmente declassanti e le testimonianze dei Marescialli Lupo e Redavid ponevano in luce come le presunte esigenze di servizio che li giustificavano fossero fittizie. I militari erano stati altresì oggetto di una sanzione disciplinare per avere interessato un avvocato allo scopo di tutelare i propri diritti ed agli stessi era stata anche sottratta, dopo i trasferimenti, l’indagine sulla morte del calciatore Bergamini. 

Da tutte queste considerazioni il ricorrente fa discendere che era stato rispettato il requisito della verità della notizia, mentre l’utilizzo di un linguaggio forte era tipico del giornalismo d’inchiesta. 

5. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte ex art. 83, comma 12-ter d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modifiche con I. 24 aprile 2020, n. 27, ha osservato che il ricorso dell’Avv. Cadavero è inammissibile siccome versato in fatto e che il ricorso dell’Avv. Mondelli è manifestamente infondato perché la giurisprudenza di questa Corte reputa la responsabilità concorsale del direttore quando risulti dimostrato che vi sia la sua consapevole adesione al contenuto dello scritto, come nel caso di specie. 

6. Il 26 giugno 2020, l’Avv. Mondelli ha replicato alle conclusioni del Procuratore generale, osservando che nulla la parte pubblica aveva affermato quanto alla questione della pena detentiva applicata: A questo riguardo, la parte richiama la sentenza della Corte EDU Sallusti contro Italia ed invoca, in primo luogo, la prescrizione del reato, in subordine la rimessione degli atti alla Procura di Cosenza per il diverso reato ex art. 57 cod. pen. e, in ulteriore subordine, la rideterminazione della pena da detentiva a pecuniaria. 

7. I difensori delle parti civili Avv.ti Fabrizio Costarella (per Ferace, Franzese e Lando) e Pasquale Vaccaro (per Cerza) hanno depositato il 9 luglio 2020, conclusioni scritte e nota spese. 

                                                 CONSIDERATO IN DIRITTO 

Il ricorso dell’Avv. Mondelli è fondato quanto al trattamento sanzionatorio, mentre l’altro motivo è inammissibile, così come è inammissibile il ricorso a firma dell’Avv. Cadavero. 

1. Il primo motivo di ricorso dell’Avv. Mondelli – dove si legge che l’imputato era stato erroneamente condannato quale autore degli articoli, mentre si trattava solo del direttore della testata, che, quindi, avrebbe dovuto essere assolto per non aver commesso il fatto – è inammissibile per due concorrenti ragioni. 

1.1. In primo luogo, la doglianza è manifestamente infondata perché muove da un presupposto errato, vale a dire che Carchidi fosse stato condannato come autore degli articoli mentre, secondo quanto si evince dalla descrizione in fatto presente nei capi di imputazione e dalla sentenza di primo grado (pag. 11), l’imputato era stato tratto a giudizio e poi condannato non già quale autore degli scritti, ma come direttore responsabile della testata su cui detti articoli erano stati pubblicati. 

1.2. Va poi anche segnalato che, a ben vedere, ciò che nel ricorso si contesta – sul presupposto che la condanna sia intervenuta erroneamente reputando che Carchidi fosse l’autore degli scritti – è la riferibilità soggettiva della materiale redazione degli articoli all’imputato (tanto che il ricorrente si duole della mancata assoluzione per non aver commesso il fatto). Ebbene, se questa è la censura al vaglio di questa Corte, allora non si può che concludere nel senso che, quand’anche il ricorrente fosse stato condannato come autore degli articoli, il ricorso sarebbe comunque inammissibile, giacché la questione della riferibilità soggettiva del fatto materiale imputatogli non era stata oggetto dell’appello. Non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione, infatti, questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica). 

2. E’ inammissibile, altresì, il motivo – unico – di ricorso a firma dell’Avv. Cadavero, siccome completamente versato in fatto ed aspecifico. Il Collegio precisa che la sentenza impugnata, letta in uno a quella di primo grado, ha dato conto di avere escluso la sussistenza della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca sulla scorta della mancanza del requisito della verità della notizia, che era stato travalicato laddove, accanto a notizie vere (cfr. sentenza di primo grado pag. 9), vi era anche il resoconto di accadimenti falsi, frutto di ipotesi e congetture non suffragate da alcuna fonte attendibile. Si tratta della circostanza che il Capitano Lando e il Colonnello Franzese avessero confermato i sospetti su Cerza a seguito dell’ascolto dell’intercettazione in cui quest’ultimo pareva essere stato chiamato in causa dai familiari del latitante; dell’esistenza, nell’ambito di una «storia squallida», di «omissioni», «abusi», «intrallazzi», «accordi sottobanco»; della soggezione dei quattro carabinieri ad «altri poteri» e della loro attività tesa a screditare i loro fedeli sottoposti. Situazioni e comportamenti — secondo quanto si legge nelle conformi sentenze di merito – non emersi dall’istruttoria dibattimentale, che pure aveva visto l’audizione sia delle persone offese che di tre dei carabinieri in tesi danneggiati dall’operato di queste ultime. 

2.1. Ebbene, di fronte a tale costrutto in fatto, il ricorso, in primo luogo, pretenderebbe da questa Corte un nuovo scrutinio di merito circa gli accadimenti interni al Comando Provinciale dei Carabinieri di Cosenza, onde riconsiderare la verità della notizia, limitandosi a riproporre, pressoché testualmente, l’atto di appello. Il ricorrente, così facendo, trascura però che questa Corte non può rivalutare i fatti storici accertati nel corso dei gradi di merito e restituiti con congrua motivazione. Come autorevolmente sancito da Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944, infatti, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (ex multis, anche Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). 

2.2. In secondo luogo, l’impugnativa in esame manca di confrontarsi con le argomentazioni offerte dai Giudici di merito, perseguendo un proprio iter ricostruttivo che omette, tuttavia, di evidenziare falle argomentative nella sentenza impugnata. Questa impostazione pregiudica ulteriormente l’ammissibilità del ricorso: va ricordato, a questo riguardo, come Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, abbia ribadito un concetto già accreditato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. 

3. Come anticipato, è fondato, invece, il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Mondelli, quello concernente il trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento all’irrogazione all’imputato della pena detentiva. 

3.1. A questo proposito, appare opportuno rievocare – quale autorevole riferimento per un approccio costituzionalmente e convenzionalmente orientato sul tema – la recentissima ordinanza n. 132 del 2020 (pronunziata a seguito della camera di consiglio del 9 giugno 2020 e depositata il successivo giorno 26) della Corte Costituzionale; la Consulta – investita dai Tribunali di Salerno e Bari di analoghe questioni di costituzionalità degli artt. 595, comma 3, cod. pen. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con riferimento alla previsione, alternativa o cumulativa, della pena detentiva accanto a quella pecuniaria per la diffamazione aggravata a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato – ha rinviato la decisione al 22 giugno 2021, spiegando che il rinvio si è imposto – nell’ottica di una leale collaborazione istituzionale – in attesa dell’evoluzione dei progetti di legge dedicati alla revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa, che risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere. 

Ebbene, a prescindere dalla natura interlocutoria del provvedimento, la Consulta ha tuttavia fornito, in primo luogo, alcune direttrici ermeneutiche utili all’inquadramento dei limiti della compatibilità convenzionale della previsione, per la diffamazione a mezzo stampa, anche della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost in relazione all’art. 10 della CEDU, norme intorno alle quali – pur con leggere differenze di impostazione – vertono prevalentemente i dubbi di costituzionalità dei Giudici rimettenti (il Tribunale di Salerno dubita anche della compatibilità con gli artt. 3, 21, 25 e 27 Cost).  

La Consulta ha preso le mosse dalla rievocazione della sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 17 dicembre 2004 Cumpana e Mazare contro Romania, concernente il ricorso di due giornalisti, condannati per diffamazione in quanto autori di un articolo nel quale accusavano di corruzione un Giudice. Nell’occasione, la Corte EDU, pur riconoscendo la legittimità dell’affermazione di responsabilità penale degli imputati (i fatti erano stati distorti ed erano privi di adeguati riscontri), ritenne tuttavia che l’irrogazione nei loro confronti di una pena di sette mesi di reclusione non sospesa (ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale) costituisse un’interferenza sproporzionata con il loro diritto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 dell’art. 10 CEDU. Il doveroso controllo, da parte degli Stati, sull’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare per legge un’adeguata tutela della reputazione delle persone – sostennero i Giudici di Strasburgo – non può avvenire in una maniera tale da dissuadere indebitamente i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri, dissuasione che può discendere dallo spettro di una sanzione detentiva, il che può riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni. Nell’occasione, la Corte – come pure ricorda la Consulta – concluse che «l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza».  

Detti principi, come pure ha avuto cura di ricordare la Corte Costituzionale, sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU nella propria successiva giurisprudenza, ivi comprese le sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia. In tali ultime pronunce, i Giudici di Strasburgo, da un lato, hanno ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile); ma, dall’altro lato, hanno reputato sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica. 

La Consulta ha, inoltre, ricordato che numerosi documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa raccomandano agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà di espressione dei giornalisti e, correlativamente, il diritto dei cittadini a essere informati. 

Non è, tuttavia, solo il quadro convenzionale che va riguardato: la Corte ha ricordato come il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, garantito dall’art. 21 Cost., sia «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968), «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 126 del 1985 e, di recente, sentenza n. 206 del 2019)». Ed è nell’ambito di tale diritto che si iscrive la libertà di stampa, quale irrinunciabile presidio per l’attuazione di un sistema democratico, che garantisce, da un lato, la libertà di espressione del giornalista e, dall’altro, il diritto all’informazione dei cittadini, assicurato dal pluralismo delle fonti informative. 

Se quella tracciata è la direttrice concettuale che impone di tutelare la libertà di stampa dai condizionamenti che possano derivare dal rischio della detenzione, la Consulta, con precisi riferimenti giurisprudenziali, ha anche rimarcato che tale impostazione non può però tralasciare l’esigenza di garantire la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Né può essere trascurata – si legge altresì nell’ordinanza della Corte – la necessità di salvaguardare la dignità della persona, lesa dalla divulgazione di notizie false o attinenti esclusivamente alla propria vita privata.  

Il cuore del problema è, dunque, quello di trovare il punto di equilibrio tra la libertà di stampa, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro. Soluzione alla quale la legislazione attuale – con la previsione in via alternativa o cumulativa, della pena detentiva – e l’esegesi di legittimità sul punto (con il ricorso ai criteri dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa o dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti e della continenza formale) non forniscono più – a giudizio della Corte – una risposta adeguata. 

Ciò con particolare riferimento al fatto che la giurisprudenza della Corte EDU, al di fuori di ipotesi eccezionali, considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui.  

Conclude, pertanto la Corte, sostenendo che «Si impone, pertanto, una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, nel senso ora precisato, con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti». Ciò a maggior ragione in quanto le vittime «sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato». 

Il compito di individuare complessive strategie sanzionatorie che raggiungano l’indicato punto di equilibrio tra esigenze contrapposte è, prima di tutto) del legislatore; in questo quadro, la Consulta auspica la previsione di sanzioni penali non detentive, di rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica) e di efficaci misure di carattere disciplinare. Quanto al ricorso alla pena detentiva, l’auspicio ne contempla l’utilizzo solo per quelle «condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio». 

3.2. Ebbene, al di là della «leale collaborazione istituzionale» con il Parlamento nell’ambito della quale si colloca la pronunzia interlocutoria in discorso, è evidente che essa fornisce una traccia esegetica di grande rilievo, che non può essere trascurata nell’ottica di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del tema del trattamento sanzionatorio agitato dal ricorrente. Secondo la direttrice segnata dal quadro normativo e da quello giurisprudenziale evocato dalla Consulta ed in attesa delle determinazioni del legislatore e di quelle, eventuali, della Consulta stessa, allo stato la scelta di applicare la pena detentiva non può che passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato; ciò allo scopo di apprezzarne – o meno – l'”eccezionale gravità” così come delineata dai precedenti sopra riportati, in presenza della quale sarebbe consentita l’applicazione della pena detentiva.  

Se questa è la valutazione a farsi, è evidente che si tratta di una decisione che, implicando giudizi concernenti il merito della regiudicanda, spetta al Giudice di merito, il quale dovrà decidere se la meritevolezza della pena detentiva, peraltro non condizionalmente sospesa, discenda dall’inquadramento delle notizie divulgate dagli articoli pubblicati e reputate diffamatorie nell’ambito di quelle di particolare gravità per cui potrebbe ancora trovare applicazione la reclusione. 

In caso contrario, eventualmente esercitando i poteri di ufficio ex art. 597, u.c., cod. proc. pen., il Giudice del rinvio dovrà rimodulare il trattamento sanzionatorio. 

4. Il governo delle spese sostenute nel grado dalle parti civili è rinviato alla definizione del giudizio. 

                                                                                                                                                                                                                                  P.Q.M. 

annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro. 

Spese delle pc al definitivo. 

Così deciso il 09/07/2020.  

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