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DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA: VERITÀ PUTATIVA E RESPONSABILITÀ DEL DIRETTORE DIMISSIONARIO

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Pubblichiamo questa interessante sentenza di cassazione in merito alla responsabilità per omesso controllo del direttore dimissionario.

 

Cass., Sez. V, sent. 16 febbraio 2021, (dep. 7 aprile 2021), n. 13069, Pres. Miccoli, Rel. Scordamaglia

 

 

1. Con la sentenza n. 13069 del 2021, la Corte di Cassazione chiarisce che, in tema di diffamazione a mezzo stampa[1], la mera presentazione delle dimissionidall’incarico da parte del direttore responsabile non è di per sé causa di esonero da responsabilità per l’omesso controllo della pubblicazione ai sensi dell’art 57 c.p., rimanendo egli investito della posizione di garanzia fino al momento in cui non si sia esaurita la procedura di aggiornamento della registrazione prevista dall’art. 6, l. 20 gennaio 1948, n. 47.

 

2. Il caso riguardava la pubblicazione su un quotidiano locale – nell’edizione del 30 settembre 2012 –, nonché sul sito internet della stessa testata giornalistica, di una serie  di articoli diffamatori dal titolo: ‘Meno 27 giorni al carcere, S. condannato dall’amico del Giudice’ e ‘Toh, il Giudice di Cassazione é amico della toga diffamata’, a firma di F.L.G., con i quali si offendeva la reputazione del Dott. B.A., magistrato della Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione, relatore nel procedimento relativo al ricorso presentato da S.A. avverso la sentenza di conferma della sua condanna, per la diffamazione perpetrata nei confronti del magistrato C.G., conclusosi con il rigetto del ricorso medesimo, accusandolo di essere venuto meno al dovere di imparzialità, esercitando la giurisdizione nei confronti di un amico stretto e di un compagno, che aveva favorito con il consentirgli di lucrare il risarcimento del danno.

 

Si avviava così un procedimento penale per diffamazione all’esito del quale il giudice di prime cure perveniva alla condanna, anche agli effetti civili, di F.L.G. per il reato continuato di diffamazione aggravata a mezzo stampa in danno di B.A.; condanna poi confermata in secondo grado. Peraltro, in parziale riforma della pronunzia del Tribunale di Cagliari del 30 maggio 2017 ed in accoglimento dell’appello del Procuratore Generale e della parte civile, la Corte d’Appello di Cagliari ha condannato, anche agli effetti civili, S.A., nella qualità di direttore responsabile del quotidiano in questione, per il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p., dal quale in primo grado era stato assolto con la formula per non avere commesso il fatto.

Di qui l’intervento della Cassazione chiamata a verificare l’impermeabilità della sentenza di merito rispetto alle censure di entrambi gli imputati.

Il ricorso proposto nell’interesse di F.L.G. consta di un solo motivo, con il quale si denunciano: violazione degli artt. 43 c.p., comma 1, 51 c.p., comma 1 e 59 c.p., u.c., e vizi motivazionali in ordine alla sussistenza del dolo del reato di diffamazione e al diniego del riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca nella forma putativa[2]. Anche il ricorso del secondo imputato (S.A.) é affidato ad un solo motivo; dove il difensore denuncia la violazione dell’art. 57 c.p. e il vizio di motivazione, rilevando come la Corte di Appello – lungi dall’accertare se S., pacificamente dimissionario al momento della pubblicazione degli articoli diffamatori e sostituito da B.V., avesse potuto in concreto compiere il controllo[3] sul loro contenuto – aveva valorizzato, onde giustificarne la perdurante esigibilità a suo carico, il mero dato formale del mancato aggiornamento dei dati relativi all’investitura del nuovo direttore responsabile della testata giornalistica, ai sensi degli L. n. 47 del 1948, artt. 5 e 6. Aggiornamento rispetto al quale, tuttavia, sia la proprietà del giornale, sia il ‘nuovo’ direttore responsabile erano ancora in termini per adempiervi, essendo all’uopo previsti quindici giorni per provvedervi.

 

3. La Corte di Cassazione, annulla (senza rinvio) la sentenza impugnata, per essere i reati ascritti ai due imputati estinti per prescrizione, maturata il 29 di marzo del 2020.

Di conseguenza, a restare in piedi sono i soli effetti civili dei due ricorsi avanzati dalle rispettive difese; entrambi, in ogni caso, respinti dal Collegio.

 

3.1. Nel far questo, con riferimento al primo dei due ricorsi, la Suprema Corte richiama la propria giurisprudenza in tema di accertamento del dolo (eventuale), secondo cui, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nel reato di diffamazione, è sufficiente il solo dolo generico, che può appunto declinarsi anche nella sua forma ‘eventuale[4]. Di talché, prosegue la Corte, in tali casi il diritto di cronaca giornalistica (ex art. 21 Cost.) trova un preciso limite nella tutela individuale dell’onore e della reputazione – di modo che il primo possa essere lecitamente esercitato, nell’ipotesi in cui possa derivarne la lesione del secondo, nei soli casi in cui il giornalista abbia assolto al proprio onere di effettuare un controllo particolarmente accurato e rigoroso dell’informazione e della sua fonte, in special modo nella cronaca giudiziaria, in ipotesi di indagini in corso deputate all’accertamento della verità –; da ciò i giudici di Cassazione fanno derivare l’assunto secondo cui, nel caso in cui il cronista non abbia proceduto con la dovuta diligenza ai predetti obblighi di controllo, la pubblicazione della notizia equivale ad accettare il rischio, non solo che essa non corrisponda a verità, ma anche di ledere l’altrui reputazione.

Sulla base dei medesimi argomenti la Cassazione esclude che il ricorrente possa legittimamente invocare la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, sul presupposto che essa sia invocabile nei soli casi in cui, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare la verità della notizia cosicché non sia ascrivibile allo stesso alcun rimprovero a titolo di negligenza.

 

3.1.1. La Corte di Cassazione conferma dunque il consolidato orientamento in tema di verità putativa volto a condizionare la scusabilità della condotta del giornalista a una verifica meticolosa delle fonti, tale che nessun rimprovero a titolo di negligenza o imprudenza possa essere a lui mossa; scelta che, inevitabilmente, si trova a dover fare i conti con la natura (esclusivamente) dolosa del delitto di diffamazione. D’altra parte, il processo di accertamento dell’elemento soggettivo riproposto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità è di tutta evidenza condotto attraverso lo strumentario tipico dei reati colposi, con il risultato, come anticipato, di fare della diffamazione, come da tempo rilevato, una fattispecie equivoca dal questo punto di vista, in cui ricadono, indifferentemente, sia fatti dolosi, che colposi[5].

Su questo fronte non si è mancato in dottrina di valorizzare la necessità di una più rigorosa applicazione dell’art. 59, u.c., c.p., da contrapporre a tale visione contra legem, non indugiando sulla scusabilità/evitabilità dell’errore a favore dell’accertamento circa un positivo convincimento dell’agente circa la ricorrenza della causa di giustificazione. D’altronde, il testo dell’art. 59, u.c., c.p., è inequivocabile: da un lato, sancisce l’operatività delle cause di giustificazione anche nell’eventualità in cui i loro estremi oggettivi (qui, la verità della notizia riportata) siano soltanto erroneamente supposti dall’agente, aprendo, dall’altro lato, a una possibile responsabilità a titolo di colpa nel caso in cui l’errore sia colposo e il fatto sia previsto dalla legge come tale – il che, ovviamente, esclude a priori il delitto di diffamazione.

Nel caso di specie peraltro la Corte valorizza l’atteggiamento colposo del giornalista in una duplice prospettiva: da un lato, quale indice del dolo eventuale dell’agente, dall’altro lato, quale elemento che esclude il riconoscimento della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca nella sua dimensione putativa.

Sul primo versante, i giudici avrebbero piuttosto dovuto dimostrare lo stato di dubbio del giornalista e la sua decisione di accettare la verificazione della lesione dell’altrui reputazione; sul secondo versante, la Cassazione si sarebbe dovuta piuttosto impegnare a isolare gli indici che escludevano a suo giudizio l’esistenza di un positivo convincimento dell’autore dell’articolo circa la verità della notizia.

 

3.2. E veniamo ora al profilo relativo alla responsabilità del direttore responsabile ex art. 57 c.p[6].

Anche questa seconda doglianza, come si è detto, cade sotto la scure dei giudici di legittimità;  sul rilievo che la posizione di garanzia che fonda la responsabilità penale del suddetto – a matrice tanto negoziale, quanto normativa, per intercessione della L. n. 47 del 1948 e dell’art. 57 c.p. –, non può venir meno, anche nel caso in cui siano sopraggiunte le dimissioni del direttore, fino a quando i terzi non siano stati messi nelle condizioni di conoscere l’identità del nuovo responsabile della pubblicazione periodica tramite la quale siano stati commessi reati.

 

Per giungere a tale esito, la Cassazione ha anzitutto svolto una ricognizione delle ragioni sottese al riconoscimento della responsabilità penale del direttore responsabile, da individuarsi nella sua posizione di preminenza all’interno dell’organizzazione gerarchica del giornale, che gli impone di verificare con acribia il contenuto degli articoli destinati alla pubblicazione onde evitare che, per il loro tramite, siano commessi reati. D’altra parte, ricorda la Corte, l’art. 57 c.p., nella sua formulazione originaria del ‘30, collegava la responsabilità penale alla stessa qualità di direttore; nodo successivamente sciolto dalla Corte Costituzionale la quale, chiamata al suo esordio a pronunciarsi sula compatibilità della norma con l’art. 27, comma, 1 Cost., ne aveva, da un lato, affermato la legittimità valorizzando le posizioni già espresse dalla giurisprudenza a proposito della necessità di ravvisare nell’art. 57 c.p. un comportamento omissivo colposo del reo; e, dall’altro lato, aveva sollecitato un intervento novellatore da parte del Parlamento[7].

Come noto, la sollecitazione della Consulta ebbe pronta risposta con la L. 4 marzo 1958, n. 127, art. 1, che ha riscritto la norma di cui all’art. 57 c.p., incentrandola sulla omissione, a titolo di colpa, del ‘controllo necessario ad impedire che col mezzo della comunicazione siano commessi reati’ e richiedendo, dunque, accanto alla sussistenza di un nesso di causalità materiale tra omissione ed evento, un coefficiente di imputazione soggettiva[8].

Al lume di quanto precede, dunque, emerge con chiarezza la volontà dell’ordinamento interno di individuare nel direttore responsabile del giornale periodico il soggetto che risponda di quanto in esso pubblicato dinanzi alla legge e, perciò, investito dalla medesima di una posizione di garanzia a salvaguardia dei beni giuridici altrui suscettibili di essere danneggiati dal cattivo esercizio dell’attività giornalistica.

 

3.2.1. La Cassazione arriva così al passaggio centrale del proprio impianto argomentativo, richiamando, da un lato, le disposizioni di principio enucleate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 198 del 1982, nonché i principali orientamenti di legittimità inclini a seguire questa giurisprudenza.

In primo luogo la Corte rammenta la strada tracciata dal Giudice delle Leggi nella pronuncia appena richiamata la quale, nel dichiarare infondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 3, e dell’art. 57 c.p. in relazione all’art. 3 Cost., ha individuato il fondamento giustificativo della responsabilità penale del direttore nell’esigenza di poter contare, in ogni momento, su un soggetto immediatamente identificabile che risponda del contenuto pubblicato sul periodico, in ossequio, peraltro, all’art. 21 Cost.

 

Ciò spiega – osserva la Suprema Corte – le ragioni per le quali la giurisprudenza di legittimità, alla stregua della richiamata ratio normativa in materia, ha costantemente ribadito l’imprescindibilità della continuativa presenza di una figura apicale investita della predetta funzione di controllo, che non può in alcun modo essere condizionata o venire compromessa dalle mutevoli e contingenti vicende attinenti al rapporto negoziale in essere tra editore/proprietario del giornale e il direttore investito della guida del giornale. Pertanto, in capo all’imputato S., ancorché dimissionario, continuava a gravare l’obbligo di attivarsi per impedire la commissione dei reati in questione in virtù della posizione di garanzia dalla quale non poteva dirsi cessato al momento in cui vennero pubblicati i due articoli, a firma di F.G., e lesivi della reputazione di B.A.

 

3.2.2. A corroborare la decisione della Corte, d’altronde, intervengono almeno due argomenti di peso.

In primo luogo, occorre rimarcare come già il tenore letterale della Legge sulla Stampa non lasci spazio, sul punto, ad alcun margine di apprezzamento. Come si evince anche dai lavori preparatori della L. n. 47 del 1948, la ratio che sorregge l’intero impianto normativo è quella di garantire la reputazione dei terzi contro ogni possibile aggressione prodotta dalla pubblicazione di notizie lesive di un bene giuridico di rilevanza apicale come l’onore; di qui si spiega la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, che, nell’affermare perentoriamente il principio secondo cui ‘Ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile’, si ricollega al successivo art. 5, istituendo complesso sistema di pubblicità, che si articola, nella registrazione (della testata) prima, e nel deposito poi, presso la Cancelleria del Tribunale di riferimento, di una ‘dichiarazione, con le firme autenticate del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale risultino il nome e il domicilio di essi nonché il titolo e la natura della pubblicazione’.

Tuttavia, l’argomento decisivo è quello offerto dalla disposizione successiva.

L’art. 6 della Legge sulla Stampa, difatti, fa emergere ancora più chiaramente – se possibile – la volontà del legislatore di mantenere intatta e senza interruzionil’attività di controllo del giornale, anche in caso di un mutamento nella catena di comando dello stesso. Beninteso, cambi al vertice della testata o – come nel caso in esame – dimissioni del direttore responsabile, in quanto espressione della libertà connaturata ai rapporti negoziali che legano le parti, sono da considerarsi atti pienamente legittimi da ambo i lati; tutt’altra cosa, tuttavia, sarebbe lasciare che gli stessi possano intaccare la stabilità delle funzioni di controllo e vigilanza sul contenuto delle pubblicazioni ospitate nel quotidiano. In ciò risiede, dunque, la ratio della suddetta disposizione, a tenore della quale ‘Ogni mutamento che intervenga in uno degli elementi enunciati nella dichiarazione prescritta dall’art. 5 – in primis il nome del direttore responsabile della testata –, deve formare oggetto di nuova dichiarazione da depositarsi, nelle forme ivi previste, entro quindi giorni dall’avvenuto mutamento, insieme con gli eventuali documenti’.

In particolare, l’adempimento richiesto all’editore o al proprietario del periodico di provvedere al suddetto deposito, nel termine perentorio di quindici giorni dall’avvenuto mutamento, non lascia alcun dubbio circa la volontà del legislatore di impedire che la responsabilità del direttore sia rimessa sine die all’iniziativa di altri soggetti, al contempo garantendo comunque un congruo termine per adempiere all’obbligo di aggiornamento. Di talché, conformemente a quanto deciso dalla Corte, può ragionevolmente escludersi che in tale arco temporale possa dirsi cessato l’obbligo di controllo e vigilanza del direttore dimissionario – e che, conseguentemente, possa riconoscersi in capo allo stesso una causa di esonero dalla responsabilità penale ex art. 57 c.p. –; almeno fino al momento in cui non sia stata portata a termine la procedura di aggiornamento di cui all’art. 6, L. n. 47 del 1948.

 

3.2.3. In definitiva, ciò che emerge con chiarezza dalla pronuncia in esame è l’assoluta ‘centralità’ e ‘insostituibilità’ della figura del direttore responsabile, quale titolare di un potere di intervento preventivo – assegnatogli, in via esclusiva, dalla Legge –, rivolto alla protezione di tutti quei beni giuridici attinti dall’attività giornalistica.

A ulteriore conferma di quanto detto, peraltro, sembra opportuno evocare il ben noto atteggiamento dei Giudici di legittimità, decisamente orientati in senso contrario alla delega di funzioni nelle aziende giornalistiche, facendo leva sull’interpretazione dell’art. 57 c.p. e della normativa sulla stampa secondo cui dovrebbe esserci coincidenza tra la funzione di direttore (o vice-direttore) responsabile e la titolarità della posizione di garanzia[9].

Questa prospettiva, d’altronde, ha trovato una sponda anche da parte della Consulta. Bisogna ricordare, difatti, che la Corte costituzionale è stata investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, L. n. 47 del 1948, e dell’art. 57 c.p. – proprio con riferimento ai direttori di grandi periodici –, per l’asserita disparità di trattamento dell’azienda giornalistica rispetto alle ‘altre aziende di diversa natura presso le quali è consentita la ripartizione dei poteri e delle rispettive responsabilità’, decidendo nel senso di ritenere che l’identificazione del responsabile nel solo direttore del giornale trovi giustificazione nel fatto che egli, per la sua funzione, più degli altri è in grado di seguire l’attività del giornale. Pertanto, secondo, la Corte, rispondono a un ‘criterio razionale’, che giustifica la diversità di trattamento rispetto ai dirigenti di altre aziende, le disposizioni suddette che attribuiscono al solo direttore la responsabilità del controllo sul contenuto del giornale[10].

 

3.2.4. Nel caso in questione la decisione della Cassazione appare condivisibile atteso che ricorrevano plurimi indici a sostegno del perdurante ruolo svolto dall’imputato di direzione del quotidiano.

I giudici sottolineano infatti come le dimissioni rassegnate dal direttore fossero un mero espediente appositamente studiato al tavolino, al solo fine di sottrarre lo stesso dalle conseguenze legate alla propria responsabilità per l’omesso controllo degli articoli pubblicati riguardanti, peraltro, una sua vicenda personale.

Suscita per contro perplessità, anche qui, la riaffermazione dell’indirizzo tradizionale incline a negare rilevanza nel settore giornalistico allo strumento della delega. Come si è sottolineato in dottrina, difatti, la mutata realtà delle testate giornalistiche – la cui struttura ‘verticistica’ e le ridotte dimensioni di un tempo rendevano praticabile quella ‘supervisione capillare’ sottesa alla responsabilità del direttore ex art. 57 c.p. –, reca con sé la necessità di un ripensamento circa la rilevanza della delega di funzioni sul piano del perimetro della garanzia dovuta al direttore responsabile. Invero, il notevole ampliamento della struttura organizzativa delle testate giornalistiche al quale si è assistito negli ultimi decenni – tanto in sede di ripartizione delle competenze, quanto in sede di dislocazione della stessa sul territorio –, ha inevitabilmente portato a un’evoluzione della figura del direttore, cui, oggi, spetta prevalentemente un ruolo di indirizzo nella fase di programmazione. Di qui nasce la necessità obiettiva di «delegare ai caporedattori e ai capiservizio, in base al principio squisitamente fiduciario dell’affidamento, il compito di redigere il giornale secondo le direttive impartite»[11]. D’altronde, non sembra che nell’attività giornalistica manchino le ragioni alla base della ripartizione di funzioni e delle conseguenti responsabilità derivanti dal conferimento di una delega.

A riprova di ciò si possono menzionare i più recenti disegni di legge in cui trova spazio una apposita regolamentazione dell’istituto della delega di funzioni; scelta, quest’ultima, che accomuna il Ddl Costa[12] con il più recente presentato dal Sen. Caliendo[13]. Ricapitolando brevemente le principali novità in materia che hanno caratterizzato i due progetti di riforma, deve darsi atto della volontà legislativa di aprire alla possibilità di una ripartizione dei poteri di controllo e vigilanza, espressa chiaramente dalla disposizione – per entrambi, l’art.2 (‘Modifiche al codice penale’) –, che sancisce la facoltà del direttore di delegare le proprie funzioni a giornalisti professionisti idonei a svolgerle. Condivisibile è poi la previsione di requisiti formali – atto scritto, data certa e accettazione del delegato –, nonché sostanziali – il riferimento, appunto, alla professionalità del giornalista, come pure l’espressa richiesta di una sua idoneità a svolgerle –, atti a garantire l’immediata identificabilità del delegato, oltre che, naturalmente, che si tratti di un soggetto qualificato. Di contro, appaino condivisibili i dubbi espressi rispetto al richiamo al profilo organizzativo e alla diffusione del quotidiano che sembrerebbe circoscrivere l’ammissibilità della delega solo a realtà editoriali con certe dimensioni[14].

Anche su questo versante, sarebbe dunque importante che il legislatore procedesse a una revisione complessiva della materia; operazione tanto più urgente alla luce del recente intervento della Consulta che – bisogna ovviamente attendere il deposito delle motivazioni – rischia di lasciare ancora aperti diversi nodi.

 

[1] In argomento resta fondamentale la riflessione di A. Gullo, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, pp. 11 ss., al quale si rinvia anche per i necessari riferimenti bibliografici.

[2] Basti qui un richiamo a G. de Vero, Le scriminanti putative. Profili dogmatici e fondamento della disciplina, in RIDPP, 1998, p. 779 ss., per un’attenta disamina dei cortocircuiti interpretativi propri dei profili in esame. Segnatamente, a tener banco nel panorama attuale – come si vedrà (v. infra § 3.1.1.) –  è il riconoscimento di un vero e proprio esercizio legittimo putativo del diritto di cronaca, in ossequio al quale, il giornalista risponderebbe a titolo di colpa in tutte le ipotesi in cui questi, facendo affidamento sulla sussistenza dei presupposti del diritto di cronaca, abbia errato sulla falsità della notizia (v., da ultimo, Corte appello Torino, sez. III, 29 settembre 2020, n. 958, in www.dejure.it). Tuttavia, attenta dottrina, già da tempo, ha evidenziato una «torsione interpretativa» (testualmente, A. Gullo, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale, cit., p. 31 ss.) che si andrebbe così a realizzare nell’accertamento degli elementi costitutivi della diffamazione – delitto esclusivamente doloso – che avverrebbe attraverso le vesti del delitto colposo, con buona pace dell’art. 59, u.c., c.p. (per una pronuncia in controtendenza v. Cass., sez. V, 8 aprile 2003, in RIDPP, 2005, p. 471 ss., con nota di A. Gullo, La Cassazione e i mutamenti genetici del reato di diffamazione a mezzo stampa).

[3] In punto di omissione di controllo, per tutti, F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 399 ss.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2014, 683 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2017, 390 ss.; E. Musco, voce Stampa (diritto penale), in Enciclopedia del Diritto, XLIII, Milano,1990; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano 2004, 615 ss.; T. Vitarelli, Evento colposo e limiti del dovere obiettivo di diligenza nella responsabilità penale del direttore di stampa periodica, in RIDPP, 1990, 3, 1222 ss.

[4] In questo senso, già Cass., Sez. V, 28 novembre 1997, n. 679, in www.dejure.it; Cass., Sez. V., 11 maggio 1999, n. 7597, in www.dejure.it; Cass., Sez. V, 19 ottobre 2012, n. 6169, in www.dejure.it; Cass., Sez. V, 12 dicembre 2012, n. 4364, in www.dejure.it; Cass., Sez. V, 16 ottobre 2013, n. 8419, in www.dejure.it.

In argomento, v. le attente riflessioni di G. P. Demuro, Il dolo, II, L’accertamento, Milano, 2010, p. 424 ss.

[5] In questa prospettiva, v. A. Gullo, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale, cit., p. 31 ss.; F. Viganò, art. 59 c.p., in Codice penale commentato, a cura di Dolcini e Marinucci, vol. I, 4a ed., Milano, 2015, p. 1030 ss.; E. La Rosa, Tutela penale dell’onore, in Diritto penale. Parte speciale, vol. I, Tutela penale della persona, a cura di D. Pulitanò, Torino, 2019, p. 392 ss., e, a supporto, di G. Marinucci, Agire lecito in base ad un giudizio ex ante, in Studi in onore di Mario Romano, vol. II, Napoli, 2011, p. 1105 ss.

[6] Su questo tema, v. A. Mino, La disciplina sanzionatoria dell’attività giornalistica. Dalla responsabilità penale del direttore alla responsabilità penale dell’ente, Milano, 2012.

[7] Cfr. Corte Cost., 15 giugno 1956, n. 3, in www.cortecostituzionale.it; con la quale, tra l’altro, la Corte delinea il modello delle ‘sentenze interpretative di rigetto’, assieme al ‘controtema’ del diritto vivente.

[8] Sul punto non mancarono prese di posizione piuttosto critiche da parte della dottrina nell’immediatezza della novella legislativa; in argomento, v., tra gli altri, A. Pagliaro, La responsabilità per i reati commessi a mezzo della stampa periodica secondo il nuovo testo dell’art. 57 c.p., in Scritti in onore di A. De Marsico, II, Milano, 1960, p. 241 ss., e di G. Pisapia, La nuova disciplina per i reati commessi a mezzo della stampa, in RIDPP, 1958, p. 321 ss. Cfr. G. de Vero, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2020, p. 718 ss.

[9] Cfr., Cass, Sez. I, 13 dicembre 1963, in Cass. pen., 1964, p. 944; Cass., Sez. V, 27 settembre 2004, n. 46786, in www.dejure.it; Cass., Sez. V, 11 novembre 2009, n. 7407, in www.dejure.it; Cass., Sez. V, 16 ottobre 2014, n. 51111, in www.dejure.it.

[10] C. cost, 24 novembre 1982, n. 198, in www.cortecostituzionale.it; richiamata dalla successiva ordinanza di manifesta infondatezza del 16 maggio 1983, n. 139.

[11] Così, G. Fiandaca, È «ripartibile» la responsabilità penale del direttore di stampa periodica?, in Foro It, 1983, p. 570 ss. Nello stesso senso, v. E. Musco, voce Stampa, in Enc. dir, 1990, p. 633 ss. Sul tema in generale, v. T. Vitarelli, Delega di funzioni e responsabilità penale, Milano, 2006.

[12] (A. S. n. 1119) ‘Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale. Ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato’. In argomento, v. A. Gullo, La tela di Penelope. La riforma della diffamazione nel Testo unificato approvato dalla Camera il 24 giugno 2015, in Dir. pen. cont., 15 marzo 2016.

[13] (A. S. n. 812) ‘Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato’, presentato il 20 settembre 2018.

[14] Nello stesso senso, A. Gullo, La tela di Penelope, cit., p. 27.

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