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Bilancio di fine anno: Inpgi, equo compenso, intervento pubblico nell’editoria, una fase costituente per il sindacato

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Care colleghe e cari colleghi,
non è semplice analizzare quanto avvenuto in questo anno. Le scelte appena fissate in legge di bilancio sull’Inpgi, l’istituto che dal 1926 ha gestito le pensioni del nostro settore, ci consente di intravedere un piccolo disegno complessivo. 


INPGI IN INPS

La scelta compiuta dal Governo e sancita dal Parlamento ovvero l’incorporazione dell’Inpgi 1 in Inps, la parte dell’istituto che gestiva le pensioni e i contributi dei lavoratori dipendenti, è stata una scelta obbligata, l’unica che fosse plausibile e praticabile. Per anni di fronte a un quadro di conti sempre più compromesso, per le scelte di un sistema retributivo tenuto in piedi per 22 anni che si disallineava dal contributivo generale di area Inps, per la crescita del numero dei pensionati e la forte riduzione del numero dei colleghi in attività, per una media di importi tra stipendi e pensioni che vedeva queste ultime superiori di 10mila euro annui rispetto agli attivi, per l’incidenza demografica dei giornalisti con un rapporto attivi pensionati precipitato fino a 1,4/1 dal 3/1 di dieci anni fa, si è pensato di risolvere la questione con operazioni prima di ingegneria immobiliare, poi con il passaggio al contributivo, infine con le ipotesi di ingressi dei comunicatori e, in limine mortis, dei lavoratori dell’editoria.

Su queste ipotesi pendeva una ipoteca generale: non c’era tempo per compiere scelte che fossero figlie di un confronto sereno. Il bilancio dell’istituto continuava la sua rincorsa di rossi accumulando deficit anno dopo anno. All’ipoteca generale si accompagnavano profili di potenziamento dell’istituto in contrasto sia con la storia del nostro paese in chiave pensionistica sia con la volontà dei “nuovi contribuenti”. Nella storia del nostro paese non era mai accaduto che una cassa privatizzata fosse salvata da contribuenti in arrivo dall’Inps, dall’assicurazione generale pubblica. Semmai è sempre stato vero il contrario: una ventina di casse e istituti che avevano tentato di navigare in mare aperto erano tornate sotto l’ombrello pubblico perchè ad un passo dal fallimento o fallite.

Il trasloco di contribuenti doveva avvenire contro la volontà dei diretti interessati. Prima i comunicatori, con le loro sigle del settore autonomo, poi i lavoratori dell’editoria, con Cgil, Cisl e Uil avevano espresso chiaramente il loro no al passaggio in Inpgi. Non erano mai stati coinvolti nel progetto di consolidamento del polo previdenziale dei giornalisti e si sarebbe creato un problema non banale di costituzionalità. I tentativi di dimostrare che la categoria si faceva carico della sostenibilità dell’istituto rinunciando per cinque anni all’1% di pensioni e stipendi aggiungeva altri problemi di equità della misura e di costituzionalità, sia per la violazione dell’articolo 23 (quello sulla riserva di legge di tributi e tasse) sia per l’irripetibilità di altri contributi di solidarietà da parte di pensionati.

Dunque l’unica strada possibile era la garanzia pubblica.Significava due cose: o la ripubblicizzazione dell’istituto ante 1994 contando sull’equiparazione de iure inpgi inps in base alla legge Rubinacci del 1951 oppure l’incorporazione di Inpgi 1 in Inps. Il legislatore ha optato per questa strada, memore dell’identico percorso effettuato per la ventina di istituti, tra gli ultimi Enpals. Stampa Romana ha spinto per la garanzia pubblica, voce puntuale e decisa all’ìnterno del sindacalismo dei giornalisti italiani, chiedendo che la soluzione legislativa non penalizzasse i colleghi incolpevoli per le strategie di chi aveva e ha guidato l’Inpgi e la Fnsi negli ultimi anni.

La scelta del Governo Draghi non penalizza nessuno. Non penalizza i pensionati, il cui diritto è già definito, e non penalizza gli attivi, il cui diritto è in fase di maturazione. E non lo fa, nonostante gli attacchi di un pezzo di politica e di ex presidenti Inps ai giornalisti accusati di ricevere un trattamento di favore. Non esiste alcun privilegio perché il passaggio avviene alle stesse condizioni, il pro rata, cui avevano avuto diritto quelle categorie di lavoratori le cui casse erano state assorbite dalla previdenza pubblica (dirigenti d’azienda, piloti, sportivi ecc ecc). In sostanza i giornalisti non sono diversi dagli altri lavoratori cui la Costituzione garantisce il diritto alla pensione. Un punto di svolta determinante per questa soluzione è arrivato dall’endorsement estivo del Presidente della Repubblica. Mattarella ha descritto perfettamente il ruolo professionale e costituzionale dei giornalisti, l’orizzonte della garanzia pubblica, il percorso necessario da portare a termine. Il legislatore ha definito oggi tempi e modi del passaggio. 

Inpgi diventerà una cassa di giornalisti autonomi; una commissione Inpgi Inps dovrà definire i termini del passaggio di consegne (pensiamo a parte del patrimonio immobiliare o alla erogazione di un istituto come l’ex fissa tipico del giornalismo italiano). Gli ammortizzatori di settore resteranno inalterati fino alla fine del 2023. Un passaggio lento e, ci auguriamo, ben gestito per confluire nel sistema generale. E proprio su questi due punti, il destino dei lavoratori non contrattualizzati anche in chiave pensionistica, e la confluenza nel sistema generale pubblico e il ruolo che il pubblico può e deve avere per il giornalismo italiano è necessario spendere qualche ragionamento.


INPGI 2 OVVERO PAGHE E PENSIONI EQUE

Non c’è molto da celebrare per la fine di un’epoca con l’incorporazione di Inpgi 1 in Inps ma non c’è molto da stare allegri per Inpgi 2 in modalità stand alone. Intanto perchè dobbiamo sempre ricordare che la sostenibilità della previdenza è solo il riflesso della sostenibilità del mercato del lavoro. Quando il mercato del lavoro ha una encefalogramma tendente al piatto la previdenza si comporta di conseguenza. Lo sfruttamento dei collaboratori, l’abuso dei cococo, l’esplosione anche per convenienze fiscali delle partite Iva, cioè il lavoro autonomo non più identificato come una scelta di vita ma come una necessità per fare questo mestiere si riflette sulla previdenza.

Se cioè la media retributiva di partite iva e cococo oscilla tra gli 8mila e i 15mila euro annui, se cioè nella parte più bassa di questa forchetta siamo dalle parti di quanto si riceve con il reddito di cittadinanza, se cioè le paghe eque di cui all’articolo 36 della Costituzione restano uno slogan piuttosto vuoto è chiaro che ne risentirà la previdenza. Fa sorridere allora ragionare sullo stand alone dell’Inpgi 2. Le decine di milioni di attivo delle casse Inpgi 2 derivano dal fatto che il migliaio di pensionati è retto da 30mila contribuenti circa. Ma, come è accaduto per il lavoro dipendente, non è detto che questo rapporto sia eterno.

E’ probabile che il rapporto tra qualche anno inizierà a ridursi tra attivi e pensionati. E poi quanto guadagnano i pensionati Inpgi 2? 2120 euro lordi all’anno. Meno della metà di quanto ricaverebbero dalla pensione sociale.
Sono tutti temi centrali per capire il nostro orizzonte. Non può non ripartire da un lavoro dipendente con salari difesi e ben strutturati, e da un lavoro autonomo in cui l’equo compenso diventi una traccia ineludibile per legislatore ed editori. 

Il tavolo aperto da più di un anno presso il sottosegretario Moles, un tavolo al quale il sindacato si siede per effetto di un ricorso al Tar vinto anche da Stampa Romana, deve produrre al più presto risultati. E i risultati non possono essere solo il frutto di un accordo negoziale, pur auspicabile, tra sindacato ed editori. Deve anche rilevare il dettato costituzionale dell’articolo 36 e il garante di questo dettato non possono che essere il Parlamento che ha legiferato sull’equo compenso e il Governo che sovrintende alla commissione che deve definire cifre, parametri, compensi.


MERCATO O INTERVENTO DELLO STATO?

Lo Stato non può essere solo uno spettatore interessato delle dinamiche tra organizzazioni di categoria anche per ragioni europee, di missione e di tutela del bene primario “informazione” ed anche per gli effetti “espansivi” dell’economia legati alla pandemia.Guardiamo a quanto accaduto negli ultimi giorni. Nella legge di bilancio oltre alle norme salva pensioni ci sono passaggi che allungano di un anno la durata degli ammortizzatori sociali al di là del triennio nel quinquennio mobile. Lo Stato si rende conto che il jobs act non può che essere perfezionato, o se preferite, meno applicato in un momento di maggiore protezione dell’occupazione chiesta da tutto il mondo produttivo.

E forse un supplemento di riflessione andrebbe fatto sull’uso della cassa Covid visto che lo stato di emergenza è stato prorogato fino al 31 marzo. Approvando la legge sul copyright e adattandola al diritto d’autore italiano, lo Stato ha deciso di tutelare i produttori di contenuti e di giornalismo anche nel nostro paese. La legislazione attuale sembra aver retto alle pressioni degli OTT e si avvicina al modello francese o a quello australiano. Dunque toccherà alle parti in causa e, in subordine, all’Agcom indicare le strade per monetizzare l’uso (e l’abuso) delle notizie da parte delle piattaforme.

Se gestito in modo coerente senza accordi sotterranei con Google e Facebook, se cioè si fa un’azione anticiclica rispetto alle dinamiche del mercato pubblicitario, si possono recuperare milioni di euro per il settore.Se nella legge di bilancio spuntano nuovi finanziamenti pubblici da investire sul fondo per l’editoria è probabile che dopo un decennio in cui abbiamo assistito alla corsa per intestarsi la riduzione del finanziamento pubblico all’editoria considerato centro di sprechi, ruberie e furbizie di ogni genere oggi si possa iniziare una importante rimonta.

Da tempo dal dipartimento dell’editoria, buon ultimo il report di dicembre, si puntualizza che in ogni Stato europeo persino nell’Inghilterra conservatrice, memore della lezione della Thatcher e di Milton Friedman, si aiuta direttamente o indirettamente con danaro pubblico il prodotto editoriale. E possiamo leggere in questa tendenza anche l’apertura di un tavolo di confronto sulle agenzie primarie di informazione. Finalmente sono considerate un bene pubblico da parte del Governo come chiesto da Stampa Romana e dai cdr delle agenzie, ne è riconosciuta la funzione di “certificatore” delle notizie ed anche per questa ragione si potrebbe abbandonare il sistema dei bandi che ha depresso tutte le redazioni.

In questi ultimi anni solo Agi e Adnkronos non hanno fatto uso ad ammortizzatori sociali o riduzioni dello stipendio garantito dal contratto di lavoro. L’inversione di tendenza deve essere consolidata con un cambio di passo fondamentale. Gli interventi pubblici devono creare occupazione o stimolarne la creazione e non distruggere occupazione. Deve finire l’epoca dei prepensionamenti e deve iniziare l’ora degli investimenti in occupazione.

La transizione digitale deve essere accompagnata da nuova e buona occupazione e non dalla distruzione di posti di lavoro. Il ruolo della formazione nella transizione digitale, con relativo protagonismo sindacale, deve essere centrale. Lo smart working deve essere costruito con le redazioni in modo equo non rinunciando alla fattura di un prodotto autenticamente collettivo, nè bypassando leggi generali e contratto di lavoro a cominciare dall’orario di impegno. Non abbassiamo la guardia sulla sicurezza sul lavoro e la sanificazione delle redazioni: la recrudescenza dei contagi impone il tassativo rispetto delle norme di legge e dei protocolli di sicurezza. Proprio per il ruolo che deve investire il pubblico è doveroso parlare di Rai.

La transizione digitale del prodotto giornalistico non può non avvenire che con il confronto sindacale. In questo momento non sta accadendo su nessuno dei fronti aperti, la TGR, Rai sport e i colleghi della Deoi con il contratto giornalistico (in attesa della fase due) ma senza direttore come in ogni altra redazione esistente a Roma. Non solo la cultura dei tagli fine a se stessa va rifiutata in un’ottica di ripresa del protagonismo pubblico ma va anche respinta al mittente un’altra indicazione emersa dai primi atti della Rai targata Fuortes. I tg hanno senso se coprono le notizie e le necessità reali del paese anche quelle a “fallimento di impresa” e si giudicano in base a questo semplice valore. 

Se il giudice fosse lo share sarebbe lesa l’identità e il ruolo del servizio pubblico universale. Se trionfasse la logica dell’ascolto, la Rai perderebbe intere redazioni o canali. E’ un pericolo, culturale e non solo, da evitare a ogni costo.Tornando al mercato è fondamentale che le aziende tornino a produrre utili investendo nel prodotto Informazione. Che è diverso dal marketing, dalla pubblicità, dalla comunicazione mascherata da informazione. Noi restiamo convinti che le ricette vincenti siano sempre le più semplici: dare tutte le notizie e darle prima dei concorrenti. Cambia certamente il confezionamento e la distribuzione digitale delle notizie con l’uso saggio dei social per dialogare con i lettori. L’innovazione è un modo per produrre valore ma il valore sono anche le notizie. Ecco perchè abbiamo protestato nella stretta sull’informazione giudiziaria che richiama periodo molto bui della storia nazionale.


LA FASE COSTITUENTE DEL SINDACATO

In un momento del genere in cui arrivano ancora fortissimi sull’occupazione i segnali della crisi, in cui la fine dell’Inpgi 1 apre uno squarcio nella autosufficienza del settore dobbiamo anche riflettere sul destino del sindacato unitario. Da anni il movimento sindacale perde iscritti. Da sette anni Fnsi non firma il principale contratto di settore. L’Inpgi intero privatizzato era il principale finanziatore di Fnsi e associazioni regionali di stampa. Proprio in un contesto di estrema fragilità anche in questo anno abbiamo lavorato sui fondamentali: il bonus Covid per aiutare colleghe e colleghi più in difficoltà, la rimodulazione delle quote di iscrizione per favorire nei primi quattro mesi del prossimo anno chi è più ai margini ma sente la necessità di una appartenenza sindacale collettiva.

E il consolidamento del nostro bilancio con una riserva di risorse che negli ultimi cinque anni è passata da 100mila euro a più di mezzo milione di euro ci consente di affrontare con relativa serenità il futuro di stampa romana. Ma rimandare o non affrontare i nodi che abbiamo descritto significa solo soffocare l’orizzonte comune di categoria. E’ giusto allora aprire una fase costituente di confronto laico e senza pregiudizi sul nostro presente e il nostro futuro all’interno del sindacato. Una sfida impegnativa, nell’epoca dell’automazione e degli algoritmi, in cui il valore di fondo e il collante non può che essere l’ascolto di tutte le ragioni in campo. Il gruppo dirigente di Stampa Romana è pronto a fare la sua parte.


Buon 2022 ed un caro saluto.
Lazzaro Pappagallo

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