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Relazione del segretario Lazzaro Pappagallo al X congresso di Stampa Romana

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Stampa Romana: azione, risultati e prospettive del sindacato territoriale dei giornalisti

Che tipo di percorso abbiamo seguito negli ultimi quattro anni?  Cosa abbiamo visto nella crisi del giornalismo professionale, nel saldo negativo tra allontanamento dal lavoro e assunzioni? Che traccia segue il giornalismo digitale e chi sono i produttori del giornalismo contemporaneo? Cosa ha fatto Stampa Romana per analizzare la crisi, contrastarla e vivere la contemporaneità?

Prima di approfondire i temi e darci un orizzonte per il futuro guardiamo la condizione del lavoro del nostro paese e del nostro territorio.

Una bussola arriva da una recentissima ricerca della Cgil con uno sguardo generale al mondo del lavoro a Roma e nel Lazio. Il 17% dei contratti del 2022 sono a tempo indeterminato. Solo 1 contratto su 6. Dei contratti a termine 1 su 3 sono contratti che arrivano a un mese. Un terzo del nuovo lavoro è part time involontario. Il 60% dei contratti attivati riguarda mansioni povere.

E’ uno spaccato drammatico del mondo del lavoro nel quale il giornalismo professionale ha piena cittadinanza. Il lavoro vecchio, quello garantito e meglio pagato tende a scomparire e avanza un lavoro povero, precario, sottopagato, ricattabile con salari bassi.

Traduciamolo nel nostro mondo.

Gli ultimi dati Inpgi fotografano 14702 giornalisti subordinati su tutto il territorio nazionale. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso un quarto degli occupati.

Tutti i tentativi di flessibilizzare il settore non hanno portato a nulla se non a decentrare le redazioni, a fare del lavoro autonomo, troppo spesso finto, il cuore del sistema produttivo, a dematerializzare tutele, diritti e stipendi.

Quindi il destino del nostro settore si iscrive perfettamente nell’arco dell’economia italiana e della sofferenza del mondo del lavoro dipendente del paese. Con questo destino intrecciato con quello del paese dobbiamo fare i conti e per risalire la china dobbiamo partire proprio dal pavimento nel quale tutto il mondo del lavoro si trova.

Altro elemento di contesto da ricordare.

Siamo l’unico paese europeo ad aver perso reddito reale negli ultimi trent’anni. Come se la moderazione salariale, uno dei compiti della concertazione made in Ciampi, avesse progressivamente eroso la capacità di tutto il movimento sindacale di contrattare e di rilanciare, di organizzare il mondo del lavoro e di spostare in avanti nella redistribuzione delle risorse e nella remunerazione del fattore lavoro la lancetta del paese. Uno dei paesi fondatori dell’Unione europea sulle politiche salariali è lontano anni luce da Francia e Germania.

Gli effetti di una deriva del genere erano forse meno visibili ma sono stati esasperati da due elementi che si sono abbattuti sul sistema paese: il Covid prima e la guerra dopo con l’inflazione a due cifre.

Nelle debolezze e nella fragilità del mondo del lavoro insiste la crisi del giornalismo professionale. Una crisi non solo di salari, ma anche di struttura industriale in rapidissima evoluzione, di centralità delle imprese minacciate e superate dall’uso dei contenuti da parte delle piattaforme, di professionalità che devono adattarsi al contesto digitale e ad una produzione velocissima ed arrembante in qualsiasi ora del giorno, con il pluralismo a rischio non solo per le titubanze dei governi sul sostegno al settore ma anche per i modelli top down diciamo di algoritmi e oggi di intelligenze artificiale pronti ad omogeneizzare l’offerta informativa.

Tutto questo ha prodotto fenomeni coincidenti e stridenti: mai come oggi c’è tanta informazione in giro disponibile ad ogni ora del giorno e della notte, mai come oggi almeno in Italia l’informazione è diventata una merce qualunque, quasi irrilevante nel dibattito pubblico, erosa nella prima qualità che dovrebbe stare a cuore a tutti noi e cioè la credibilità. Gli effetti di questa ritirata piuttosto disordinata si vedono anche nella vita politica quando elezioni di primo piano anche qui nel Lazio anche recentemente sono disertate dalla maggioranza degli elettori, segno di una sfiducia che forse è frutto non solo di una politica che non incide ma anche di un giornalismo distratto e poco attento alle questioni sociali.

E’ difficile dire quali anticorpi debbano essere assunti per dare più stabilità al sistema paese. Né abbiamo questa pretesa in questa sede. Sappiamo però che nel nostro piccolo mondo abbiamo tenuto fede ad alcuni chiari impegni con la nostra comunità. Impegni che non potevano ribaltare le sorti del mondo ma certamente hanno consentito in questi anni a Stampa Romana, grazie al lavoro del gruppo dirigente, una navigazione compatta, coesa e coerente.

La prima sfida che abbiamo raccolto e praticato è banale ma non così scontata. Riprendo la definizione ordinistica: “il rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Una definizione bellissima, tuttora insuperata, del vecchio legislatore democristiano, dell’essenza del giornalismo professionale. Applicata al nostro mondo ha significato in sostanza: raccontare la verità del nostro mondo, del mondo delle redazioni, del lavoro autonomo, della vita associativa a chi si è iscritto a Stampa Romana. In concreto si è tradotto in due cose: programmare una azione puntuale, minuta e costante, tradizionale e non, del sindacato dei giornalisti e non cedere alla teoria dell’asteroide.

Sulla prima cercherò di analizzare nel dettaglio tutti i piccoli e grandi risultati centrati.

Tuttavia prima di analizzare i risultati, una parola merita l’asteroide.

C’è attorno a noi in molte delle analisi sul giornalismo, delle depressioni cosmiche, del senso di sconfitta, del “tanto il meglio è alle nostre spalle”, detto tra l’altro da chi immediatamente passa all’incasso personale, e che ho sentito troppe volte nei luoghi in cui bisognava e bisogna difendere la professione questa storia dell’asteroide. Tradotto: non poteva che andare così.

L’inevitabilità di quello che ci circonda dal contesto sociopolitico alle azioni sindacali, non ha invece trovato rotta e riparo a Stampa Romana in questi anni. Abbiamo tenuto ben lontano l’asteroide per il senso di missione civile, democratica e costituzionale che leghiamo al giornalismo professionale e perché se sei accanto alle colleghe e ai colleghi non puoi temere di rischiare. Anche qui però era necessario avere coordinate chiare e precise: con le aziende e nei tavoli negoziali siamo sempre stati controparte. Nessuno di noi ha lavorato per far saltare le aziende editoriali gravate da una crisi oggi reale. Ma tutti abbiamo lavorato perché il loro interesse passasse dalla tutela dei diritti e dei contratti dei lavoratori. Non esiste azienda editoriale senza giornalisti. E noi stiamo dalla parte delle giornaliste e dei giornalisti. E abbiamo tenuto ben lontano l’asteroide perché, pur analizzando costantemente i cambiamenti produttivi del nostro sistema, facendo ricorso alla formazione, abbiamo tenuto ferma questa stella polare: non c’è democrazia senza giornalismo libero nel nostro paese come altrove.

E il giornalismo non è una enciclopedia del web ma il racconto, spesso in tempo reale, a volte in tempo mediato e differito, delle cose nuove, che non si vogliono far sapere, delle fonti chiuse, dell’incontro con le persone, delle interviste, delle testimonianze, di quella cosa che chiamiamo vita e che nel giornalismo migliore è quasi una vita raddoppiata, delle scelte che ogni giorno facciamo quando pubblichiamo. Il digitale, la tecnologia, l’intelligenza artificiale saranno dei compagni di viaggio ma non dei sostituti finché conserveremo nel nostro mestiere l’umanità del nostro percorso nel mondo. A ben vedere non siamo neanche così privi di strumenti di analisi e di negoziazione. I primi ce li dobbiamo dare noi se appunto non siamo attratti dalla sfera dell’asteroide, dalla inevitabilità dei destini umani e ci sembra ancora incredibile che la Fnsi non si sia dotata di un centro studi all’altezza dei tempi, i secondi sono già tra noi nelle nostre carte professionali e nei contratti di lavoro.

Dotati di questa sensibilità, abbiamo affrontato le questioni aperte. Cercherò di illustrare le cose fatte e che certamente hanno il nostro timbro.

Agenzie di informazione primaria

L’ultimo sciopero collettivo organizzato dalla categoria è uno sciopero plurale e riuscito di tutte le agenzie di stampa, coordinato da Stampa Romana. Correva il 2017 ed era proclamato a distanza di qualche giorno da una decisione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria Lotti il quale decise di annullare il sistema di convenzioni pattizio che regolava i rapporti tra la Pubblica amministrazione centrale, e di riflesso quelle periferiche, e le aziende di informazione primaria in nome dei bandi europei. Prendendo spunto da un atto dell’Anac, l’autorità Anticorruzione, si divideva l’offerta informativa delle agenzie primarie in dieci lotti e si bandiva l’asta.

Di fronte a una decisione del genere noi con i cdr e le redazioni delle agenzie fummo fermi nel dire no: vedevamo in nuce i segnali di grandi sofferenze per l’occupazione. Il nostro no era dovuto anche alle idee sbagliate che presidiavano quella decisione.

Intanto la riforma veicolava il principio che la notizia e i notiziari fossero beni fungibili e materiali e quindi assimilabili a un pezzo di asfalto. Accettava contestualmente la logica perversa del massimo ribasso con tassi altissimi di take da produrre. Con l’effetto di scaricare il massimo ribasso sui lavoratori con inevitabili tagli agli organici e di aumentare la produzione con trovate surreali come la divisione ad libitum dei lanci della stessa notizia. Infine improvvisamente il settore non era più regolato da una legge dello stato, la 416 del 1981, ma da un atto regolamentare della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Allora decidemmo di fare una piccola cosa ma rivoluzionaria. Con i comitati di redazione scrivemmo una proposta di legge nella quale indicavamo la supremazia della legge come atto fondativo del sistema dell’informazione primaria, l’acqua pubblica del settore, l’interesse nazionale come cornice del sistema messo a rischio dai bandi europei – andate in Francia e chiedete al governo Macron se intende mettere a bando i servizi della France Presse – e il ritorno ad un sistema regolamentato e pattizio nei rapporti con le aziende i cui danari dipendessero da occupazione stabile e fitta.

Qualche giorno fa, dopo cinque anni da quella idea e quattro sottosegretari all’editoria, e decine di interlocuzioni con dirigenti di rara sensibilità torniamo nel milleproroghe alla legge come cuore del sistema, all’indivisibilità del bene informazione, al suo rilievo pubblico. Cinque anni per dire che avevamo visto giusto e lontano e per dire che Stampa Romana con le redazioni ha vinto questa partita, giocandola in un modo nuovo e irrituale.

Un modo nuovo ma una partita tutt’altro che astratta.

Askanews con stipendi tagliati un secondo prima di fallire per il contenzioso sui bandi, il Velino sparito, l’Ansa uscita da ripetuti stati di crisi con organici ridotti, e ultima la Dire, con una grave crisi aziendale, con venti casse integrazioni a zero ore oggi archiviate per tornare alla solidarietà, un risultato importante figlio della determinazione del cdr e della redazione e della sua voglia di battersi anche in giudizio contro il vecchio editore per tutelare diritti e storie professionali. Ecco tutto questo scenario è ancora irrisolto, ha ancora evidenti fragilità e chiediamo al governo e al sottosegretario Barachini di aprire al più presto la fase due, quella regolamentare, per chiudere con l’operatività dei nuovi criteri a fine anno.

Per noi è fondamentale che le aziende si muovano con un arco triennale di impegno economico delle pubbliche amministrazioni e che questo impegno sia commisurato agli articoli 1. 700 in questo angolo di giornalismo oltre a migliaia di collaboratori non solo a Roma. Ma ora, al netto di una regia di sistema doverosamente pubblica, abbiamo la cornice giusta, quella chiesta da Stampa Romana. Si tratta di riempirla di colori. E di applicare il nuovo regime, come previsto dalla legge, anche agli enti territoriali, alla Regione, al Comune di Roma capitale.

E a proposito di 416 ricordo alla platea dei delegati che questa Associazione durante la pandemia è stata l’unica associazione territoriale sindacale a produrre un piano di riforma della 416 che tiene dentro tutto: danaro pubblico alle aziende e rispetto dell’equo compenso, riforma del prepensionamento, lotta alle fake news. Come è nel nostro stile, a fronte della vetustà di una legge emanata quando il digitale significava altro, e a fronte delle lamentele per una sua inevitabile riforma non ci siamo solo aggiunti al coro delle lamentele ma abbiamo prodotto un documento portato all’attenzione degli attori del settore e soprattutto portato all’attenzione degli iscritti all’Associazione che quindi hanno avuto in tempo reale la possibilità di considerare, soppesare e giudicare il nostro operato.

Le Pensioni salve e i contributi salvi

L’altro grande tema sul quale abbiamo trascorso buona parte del nostro tempo associativo è stato l’Inpgi.

Siamo stati l’unica associazione territoriale a non credere all’arrivo dei comunicatori come ancora di salvezza dell’istituto previdenziale nella sua gestione principale. Per queste ragioni siamo stati attaccati, contestati, criticati. A volte con toni accettabili e onesti, a volte con una furia degna del rogo di Campo de Fiori.

Anche qui i fatti ci hanno dato ragione.

Eppure tutti avevano a disposizione i dati patrimoniali e di bilancio. Molti dirigenti sindacali, intrecciati nel governo dell’Inpgi, sapevano che i bilanci in attivo di dieci anni fa erano figli dello sconto fiscale per affidamento all’esterno del patrimonio immobiliare mentre in quegli anni si assisteva già a un crollo verticale dell’occupazione per i prepensionamenti e i licenziamenti e a un raddoppio dei pensionati. E quei dirigenti sapevano che Inpgi nel 1995 aveva allontanato la riforma Dini che gravava su tutti gli altri lavoratori italiani. Una scommessa azzardata, quella del retributivo, che si poteva basare solo su uno sviluppo eterno del settore per garantire la crescita della base occupazionale. Una scommessa che tanti colleghi esperti di economia avevano indicato come foriera di inciampi e difficoltà. Una scommessa definitivamente sommersa dalla crisi editoriale.

Chi di noi non avrebbe voluto restare con le vecchie regole a calcolare pensioni importanti, chi di noi non avrebbe voluto avere un rapporto privilegiato e tutto interno alla categoria per gestire le proprie posizioni, chi di noi sindacalisti avrebbe voluto rinunciare a sussidi di disoccupazione più generosi della media e ad un istituto efficiente nell’erogazione degli ammortizzatori sociali.

Poi però c’è la realtà, i bilanci in profondo rosso.

L’arrivo dei comunicatori era la medicina per il malato ma dal nostro angolo di osservazione abbiamo notato:

  1. Mai in Italia c’era stato un travaso di contribuenti dall’Inps a una cassa privatizzata;
  2. I comunicatori o chi per loro erano chiaramente ed esplicitamente contrari a farsi ospitare in una cassa il cui deficit era di 240 milioni l’anno;
  3. I comunicatori o chi per loro entravano senza che potessero prendere parte alla gestione dell’istituto. Non più una testa, un voto ma una testa e zero voto.

Su queste basi era evidente che l’istituto sarebbe fallito e allora noi, e non solo noi, perché non va sottovalutata la raccolta di 3mila firme di colleghi recapitata al presidente Mattarella, il cui intervento è stato decisivo, abbiamo spinto per la garanzia pubblica e per l’ingresso in Inps.

La propaganda esterna al solo sentire la parola Inps, con commissariamento o meno, gridava all’abbattimento del trenta per cento delle pensioni e dei contributi. Eppure se avessero letto il libro mastro della previdenza italiana avrebbero notato che le casse o i fondi privatizzati saltati non erano mai stati accolti dall’Inps con tagli delle prestazioni. E’ stato decisivo sostenere che i giornalisti non potevano essere penalizzati per le colpe dei dirigenti ma dovevano essere trattati come tutti gli altri lavoratori italiani.

Ci siamo riusciti.

Gli effetti della transizione in Inps non sono semplici né tuttora da sottovalutare. Solo il 30 giugno dello scorso anno abbiamo saputo a chi i disoccupati dovevano rivolgersi per ottenere la disoccupazione. Alcuni elementi di vantaggio scompariranno all’inizio del prossimo anno. Ci sono stati cinque mesi in cui i prepensionati non hanno visto un euro. Il nuovo regime ha costretto Casagit a riformare il regime fiscale di detrazione/deduzioni con penalizzazione dei pensionati e di pagamento del bollettino della cassa, una vicenda in itinere che ha penalizzato i colleghi sulla quale dirà qualcosa il presidente Giuliani. Dopo tentennamenti sulla ex fissa almeno l’assegno 2022 è stato erogato ma sul futuro non sappiamo cosa si intenda fare per garantire un diritto compresso dai mancati versamenti degli editori. Ma forse dal fallimento Inpgi 1 possiamo ricavare qualche lezione per il futuro.

Intanto Stampa romana si è attrezzata con un accordo robusto e solido con il patronato della Uil per garantire una porta d’accesso importante ai servizi non solo previdenziali dell’Inps e l’accordo funziona. La strada dei patronati non può essere esclusa dall’angolo visuale della Fnsi per dare servizi ai colleghi e trovare risorse.

Ma sono fondamentali altre due considerazioni. Una di metodo sul confronto democratico all’interno di un sindacato unitario e uno di merito sulla vita delle associazioni e della Fnsi.

La vicenda Inpgi dimostra che prima di affrontare un problema si possono mettere sul tavolo almeno sette soluzioni senza macelleria sociale.

Le elenco:

Inpgi privata con comunicatori;

Inpgi privata con lavoratori dell’editoria;

Inpgi ripubblicizzata ma istituto autonomo;

Inpgi pubblica con ingresso in Inps in gestione separata;

Ingresso in Inps nella gestione generale;

Ingresso in Inps anche di Inpgi 2;

Ingresso in Inps senza Inpgi 2

In un confronto leale tra tutte le componenti di un sindacato unitario e non settario tutte queste ipotesi avrebbero diritto di cittadinanza e di volta in volta si sceglierebbe la più idonea, dato il quadro politico ed economico del paese e del settore, per andare a meta. Ma certamente per farlo bisogna sgombrare il campo da un macigno importante. Tutti hanno diritto a dire la loro, tutti hanno diritto ad essere ascoltati, tutte le idee meritano una presa in carico e una considerazione.

Certamente non può trovare spazio un metodo per il quale l’idea diversa va demonizzata e addirittura portata in tribunale come è accaduto per i colleghi di Pluralismo e libertà. La vittoria in primo grado di una causa agita dai vertici Inpgi è uno dei punti più bassi del sindacalismo italiano dove invece di ascoltare c’è stato il tentativo di reprimere e tacitare il dissenso. Un po’ la stessa cosa accaduta con la trasparenza degli atti Inpgi anche questa decretata dalla magistratura amministrativa.

Altra lezione da apprendere stava e sta nel finanziamento del sindacato tramite gli enti di categoria. Una partita giustificata dai servizi che eroghiamo ma che a lungo andare ha fatto perdere lucidità a chi doveva prendere decisioni generali per pensionati e attivi difficili ma giuste e inevitabili. E noi non vogliamo che questo accada per Inpgi 2 e non vogliamo che questo accada su Casagit, che deve restare la nostra cassa sanitaria e che deve perseguire quell’obiettivo in base al contratto di lavoro. Certamente bisogna lavorare sulle risorse del sindacato ma non ancorandole a una sola fonte e non valutando l’azione degli enti di categoria solo in funzione bancomat per il sindacato: apprendiamo questa lezione dalle vicende Inpgi.

Gli interventi di Stampa Romana

Mi sono soffermato a lungo su questi temi e li considero come due poliedri dai quali vedere il metodo di lavoro di Stampa Romana.

Ma gli interventi sono stati tantissimi, sindacali e giudiziali, associativi e di alleanza sociale.

Penso a tutte le diffide alle amministrazioni per chiedere il rispetto della legge 150 per gli uffici stampa. Una legge che si vuole archiviare troppo in fretta ma che rappresenta ancora un baluardo per chi crede in un sistema di regole condiviso senza differenze tra professionisti e pubblicisti. Non possiamo non sottolineare l’arretramento sugli uffici stampa della pubblica amministrazione. Di fronte alle sentenze della Corte Costituzionale, incluso il Lazio, in cui la Consulta vietava l’applicazione di un contratto privato al settore pubblico invece di definire un contratto pubblico siglato da Fnsi e Aran ci siamo rintanati prima nel giornalista pubblico rinunciando a una causa giusta avviata in tribunale e poi, travolti i contratti, salvando gli assegni dei colleghi con un ad personam. La conseguenza è che alcuni di quei colleghi hanno perso diritti tra ferie, aspettative e permessi e hanno perso le retribuzioni accessorie ma soprattutto non abbiamo la legittimità negoziale a trattare le vicende di quei colleghi.

Emblematica la vicenda dell’Aci.

Abbiamo provato a tutelare i colleghi da un cambio di contratto dal privato al pubblico avvenuto in piena estate senza alcuna comunicazione sindacale. Ci siamo riusciti ma il direttore del personale ci ha salutato dal tavolo dicendo che la cortesia era finita e che ora ai tavoli riceverà solo i confederali. Noi no perché non siamo riconosciuti.

Passo agli interventi giudiziali: e guardo con serenità al lavoro fatto davanti al Tar per ottenere il tavolo sull’equo compenso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ancora senza risultati dopo tre anni, guardo alla costituzione di parte civile quando i giornalisti sono aggrediti come nei casi Mazzola a Bari e Buongiorno a Latina, guardo al gratuito patrocinio garantito a chi un reddito sui diecimila euro, guardo all’azione che stiamo intraprendendo presso il tribunale delle imprese per far revocare il prelievo salva Inpgi dell’1 per cento per sei mesi, altro provvedimento senza capo né coda per salvare l’istituto. E questo senza contare l’assistenza dei nostri legali su cause di lavoro, conciliazioni, stati di crisi. Una nota continua e costante della nostra azione.

Penso al rafforzamento del dialogo dell’associazione con l’esterno, con i magistrati, con le università pubbliche per realizzare corsi, formazione, convegni. Penso a quella rete di alleanze sociali senza le quali il nostro frutto sarebbe solo corporativo. Penso ai premi giornalistici che sosteniamo: il premio Bonfanti sugli esteri per avere uno sguardo largo sul mondo e il premio Uniti per il lavoro con Cgil Cisl e Uil per raccontare il lavoro che c’è, quello che non c’è e quello che cambia perché pensiamo che nei giornali debba ritrovare centralità la questione lavoro, non possa essere confinata in un angolo irrisorio o esplodere come caso di cronaca per la vergogna delle morti sul lavoro pena l’arretramento sociale del paese descritto all’Inizio di questa relazione.

I grandi quotidiani, la Rai e l’emittenza privata

Roma e il Lazio sono un contenitore enorme di storie, di testimonianze, di segni di democrazia. La storia del giornalismo di questo paese passa da qui.

E allora chiedo alle istituzioni, al sindaco Gualtieri, al presidente Rocca di guardare con grandissima attenzione alle sorti di Gedi.

Gedi significa a Roma Repubblica e una redazione importante della Stampa. Questi quattro anni sono stati scanditi da troppi lutti incluso quello di Eugenio Scalfari. E’ necessario che quella grande intuizione imprenditoriale economica ed editoriale, Scalfari e Caracciolo, la dorsale Finegil, non sia svenduta e offesa. Le giornaliste e i giornalisti sono da mesi impegnati in una vertenza lunga e importante, non hanno certezze sulla voglia dell’editore attuale di impegnarsi ancora e devono sentire attorno a noi l’affetto di una comunità professionale e sociale.

Su Gedi dal tavolo negoziale non possono essere escluse associazioni come la nostra, come la lombarda o la sabauda. Ricordo alla nuova dirigenza Fnsi che queste tre regioni rappresentano buona parte del giornalismo italiano e hanno dirigenze sindacali preparate sulle crisi aziendali e non compromesse da rapporti impropri con le aziende, a partire da Gedi.

Le redazioni impostate su contratti regolari di lavoro e con contributo pubblico sono un patrimonio da difendere, da conservare con cura, un presidio di legalità nella terra digitale del far west, del copiaeincolla, della irresponsabilità, del sito farlocco, della giungla di partite iva e cococo.

Ecco perché abbiamo difeso il lavoro a Latina, a Frosinone a Viterbo e non abbiamo permesso violazioni del contratto nazionale di lavoro anche quando le testate transitavano da un’azienda a un’altra.

Le grandi televisioni hanno sede qui a Roma da La7 al Tg5, e noi soffriamo ancora per il distacco del corpo centrale di Sky. Queste redazioni sono un centro propulsivo di programmi, idee e racconto. Noi chiediamo sempre che siano stipulati contratti regolari di lavoro, che si riprendano percorsi di stabilizzazione agevolati prima della pandemia dal decreto dignità, e che i colleghi siano premiati quando gli ascolti certificano la rilevanza del prodotto.

Infine la Rai. L’unica azienda che ha assunto in modo stabile e a tempo indeterminato in questi anni risolvendo la questione contrattuale dei giornalisti delle reti. Azienda nella quale abbiamo sempre sostenuto percorsi di stabilizzazione e di rispetto delle regole come nei comportamenti antisindacali vinti sulla scomparsa della terza edizione della Tgr.

Però nel posto più garantito della nostra comunità abbiamo bisogno di regole chiare e condivise, di un confronto alto e a viso aperto, non di scorciatoie o di zone d’ombra.

E quindi abbiamo bisogno di una legge di riforma per allontanare il Governo dall’azienda e qui Usigrai, se volesse, potrebbe giocare un ruolo da protagonista come abbiamo fatto noi con le agenzie.

Abbiamo bisogno di portare a casa la seconda fase dei giornalisti di rete. L’azienda ha firmato impegni inequivocabili quattro anni fa e non può evitarli.

Abbiamo bisogno di regole certe sugli avanzamenti di carriera, sul job posting: pubblicamente abbiamo suggerito percorsi chiari, netti, certificati e controllabili a tutela delle colleghe e dei colleghi in cui recuperare anche la centralità dei comitati di redazione. E a proposito di questi ultimi chiudiamo definitivamente la vicenda del cdr di Raisport. Otto mesi con un’urna elettorale chiusa in cassaforte, un caso di scuola alla rovescia. Abbiamo sempre chiesto di fronte a una differenza di interpretazione delle regole nostre e dello statuto Usigrai l’applicazione dello statuto federale al quale ci rifacciamo tutti.

La risolviamo in due minuti: altro che otto mesi senza comitato di redazione. Non ci arrendiamo all’idea che le regole sindacali e federali non trovino applicazione in una palazzina di Saxa rubra.

La rotta per il futuro

Nel chiudere questa esperienza vorrei in chiusura tracciare qualche coordinata per il futuro.

Rinnovo contrattuale fieg fnsi. Bisogna recuperare l’inflazione, ridurre l’orario di lavoro, aprire a nuove figure professionali la cui casa non può che essere questo sindacato – questo sindacato deve ridiventare la casa di chi fa il giornalista, in larghissima misura giovani – riportare i cococo almeno negli articoli 2. Che vergogna quella media retributiva inferiore agli ottomila euro l’anno, inferiore al reddito di cittadinanza. La stagione del rinnovo del contratto principale di settore deve inserirsi all’interno di una stagione di rinnovi contrattuali confederali perché deve essere chiaro a tutti noi che non ci salviamo da soli. Ci si salva con il resto dei lavoratori italiani.

Si definisca la vicenda dell’equo compenso equiparandolo ai contratti nazionali di lavoro. E’ incredibile come la legge speciale del 2012, la prima legge ad hoc per la categoria, verrà scavalcata dalla legge Meloni che abbraccia tutte le altre professioni ordinistiche. Eravamo i primi, siamo gli ultimi. Anche qui per ripartire gridiamo al mondo che non possiamo essere esclusi, dobbiamo essere trattati come tutti i lavoratori italiani. E nel nostro piccolo chiediamo all’Ordine del Lazio di far partire l’applicazione della Carta di Firenze. Noi siamo pronti da un anno e attendiamo risposte.

La formazione deve restare centrale nella costante opera di riqualificazione professionale. Cinque anni fa cosa erano i podcast o i videomaker con mobile journalism? E dieci anni fa i social media manager? Oggi possiamo immaginare giornalisti dediti a queste funzioni. Domani possiamo individuare un’altra corsia professionale. Non diamo per scontato di essere arrivati, mettiamoci sempre in discussione e in cammino.

Aumentiamo le tutele professionali: e quindi si a norme che respingano le querele temerarie, che proteggano i cronisti. Riproporremo il reato di ostacolo all’informazione: uno dei frutti più alti del lavoro di Stampa romana. Non voglio commentare quanto accaduto al congresso di Riccione. Permettetemi però di ringraziare Controcorrente Lazio che lì ha fatto agire il libero pensiero e non ha seguito la bocciatura della mozione. Molti di loro non hanno rinunciato al filo del ragionamento per ragioni di banalissima e ingiusta contrapposizione elettorale.

Sulla libertà di racconto non ci possono essere distinguo: si deve stare tutti dalla stessa parte. E non bisogna neanche voltarsi dall’altra parte. L’assenza della Fnsi dal dibattito parlamentare durante la discussione della Cartabia è stato un atto di autolesionismo incredibile. Su questi temi non abbiamo più bisogno di bandierine ma di fatti, di atti, di norme parlamentari.

E poi di fronte alla modernità, agli algoritmi e alle intelligenze artificiali non ci arrendiamo.

Dobbiamo essere protagonisti di tutti i processi internazionali nei quali si strapperanno diritti alle piattaforme e dobbiamo stare attenti a quanto accade nelle redazioni. Non siamo sguarniti, le aziende non possono dalla sera alla mattina introdurre intelligenza artificiale, abbiamo l’articolo 42 del contratto di lavoro che consente già oggi di negoziare, contrattare, aprire la scatola delle applicazioni e capire se la nostra sarà un’informazione a chilometri zero prodotta solo dalle capacità professionali e intellettuali di giornaliste e giornalisti o se sarà aumentata e assistita dal supercalcolo. Usiamo la saggezza collettiva e contrattuale.

Infine non dimentichiamo la domanda: per fare cosa? Allontaniamo la depressione e il senso di sconfitta se ricordiamo a tutti noi e poi ai cittadini il senso del nostro mestiere; il cane da guardia della democrazia. Se il nostro mestiere non ha tutele, non ha diritti, non ha paghe dignitose, se non è distinto dal marketing, dalla pubblicità, se non morde, la democrazia del nostro paese affonderà.

Se condividiamo questo orizzonte non dovremo avere problemi a chiedere interventi pubblici, sostegni, razionalizzazione delle risorse anche sulla emittenza privata o sui giornali plurali di idee o su Radio radicale. Non dobbiamo avere timore a ricordare la centralità democratica della nostra professione. Ne va del nostro destino e di quello della democrazia italiana.

Infine la giustizia sociale. Ancora al nostro interno ci sono tante, troppe differenze degne di una piramide egiziana tra lavoratori dipendenti ed autonomi. La media retributiva dei futuri pensionati inpgi 2 da 2mila euro l’anno non può passare sotto silenzio e deve, quella sì, catalizzare tutte le attenzioni della comunità. Non è possibile che ci siano direttori che guadagnano centinaia di migliaia di euro al mese e colleghe e colleghi che ne prenderanno duecento di pensione e 5 euro a pezzo.

La giustizia sociale sia sempre un faro che segna il nostro cammino. E nella giustizia sociale le colleghe siano sempre più centrali, riprendendo il lavoro egregio svolto per metà mandato dalla Cpo, prima che intervenissero assurde liti, lavoro svolto senza guardare in faccia a nessuno, con coraggio e con convinzione. Eliminiamo tutti gli ostacoli per la parità reale di reddito e di opportunità di carriera.

Per ultimo e solo per Stampa romana sosteniamo con la pulizia dei bilanci lo spirito solidale. La campagna di assegni in periodo Covid è stato un segno eccezionale di disponibilità, un centinaio di assegni staccati a chi da un giorno all’altro non lavorava più.

Ricordo giorni di sacrificio e di combattimento all’altezza di marzo/maggio 2020 e una associazione che neanche per un secondo ha chiuso, che ha sfruttato lo smart working come il resto del giornalismo italiano non solo per non morire ma per farsi riconoscere come un servizio essenziale ed incomprimibile, con le tante casse Covid firmate per non condannare i lavoratori alla fame. Una solidarietà sostenuta dai pensionati che vorrei ringraziare anche nel fondo per acquistare beni e viveri per l’Ucraina.

E sempre per l’Associazione invito la nuova dirigenza a sfidarsi ad avere obiettivi concreti e visionari. I bandi europei. Ci siamo arrivati dopo sette anni di lavoro. A poco a poco con le persone giuste, le collaboratrici giuste abbiamo aperto un varco e dato consistenza all’Unione che non sarà solo un orizzonte di stelle ma azione pratica, concreta, vera rivolta ad aumentare anche con il nostro progetto da capofila i diritti di cittadinanza.

E ne sono sicuro la nuova dirigenza sarà composta da dirigenti irreprensibili, non ricattabili, non in vendita, disposti a stare sempre e solo da una sola parte: quella delle colleghe e dei colleghi.

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