Pur contenendo alcuni aspetti positivi (riguardo l’accesso ai contributi, il rispetto degli obblighi derivanti dal contratto collettivo nazionale e una generale riduzione dell’anzianità di costituzione dell’impresa editrice e di edizione della testata. E anche: la proroga dei termini della Commissione per l’equo compenso fino all’approvazione della relativa delibera e di tutti gli altri adempimenti previsti e la previsione del formato digitale), ci sono alcuni punti del ddl in approvazione su cui occorrerebbe intervenire sia in fase legislativa che in quella, successiva, di stesura dei decreti attuativi, dal momento che il testo stesso attribuisce al Governo ampie deleghe su aspetti fondamentali circa l’attribuzione del contributo pubblico.
In particolare va rivista la norma che, facendo riferimento ai ricavi e non più ai costi, fissa il tetto massimo del rimborso al 50%. In tal modo si rischia di far venir meno uno dei motivi per cui esiste la contribuzione pubblica, ed al quale fa espresso riferimento l’articolo 1 del ddl, ovvero assicurare il pluralismo dell’informazione. Tale previsione, oltre a rendere di fatto inefficace il contributo, premia i grandi editori e comunque chi dispone, più che di grosse vendite, di cospicua raccolta pubblicitaria. Oltretutto, una importante voce di costo (quindi trascurata) di una impresa editoriale è quella rappresentata dal lavoro giornalistico, in questo momento gravemente in crisi.
Rispetto all’obiezione di un presunto “assistenzialismo” assicurato dalla normativa finora in vigore, che avrebbe prodotto diversi episodi di truffa ai danni dello Stato, bisogna piuttosto prevedere l’intensificazione dei controlli per prevenire — e reprimere — eventuali condotte illecite e attività solo “di facciata”.
Proprio rispetto alla crisi del lavoro giornalistico, sarebbe auspicabile che il testo di legge e soprattutto i successivi decreti attuativi fossero pensati in modo da far ripartire concretamente il mercato del lavoro. E ciò potrebbe avvenire in primo luogo riconsiderando in modo realistico il sostegno alle cosiddette start-up, ancorando quest’ultimo al rinnovo delle figure contrattuali, al cambiamento radicale delle condizioni di lavoro che la rivoluzione digitale ha ormai consolidato e alle effettive esigenze di bilancio degli editori. Al pari di qualunque altra realtà editoriale esistente e destinataria del contributo pubblico. Ciò prendendo in considerazione, solo per fare un esempio, una collaborazione concreta tra Stato, editori e istituti di previdenza coinvolti, anche attraverso misure di compensazione e/o anticipatorie di contributi, tassazioni, sgravi, ecc.
Il finanziamento pubblico deve, in altre parole, prevedere il sostegno alle aziende editoriali che mettano efficacemente in atto il concetto di innovatività, prevedendo tempi e modi di realizzazione del lavoro giornalistico applicato al digitale nel rispetto delle norme contrattuali e professionali. È qui che la legge sull’editoria deve fare la differenza, se vuole evitare l’ennesimo sperpero di denaro pubblico destinato a realtà editoriali non più attuali, e che — è sufficiente guardare ai numeri della disoccupazione e della precarietà — non è più in linea con le richieste e le esigenze del mercato ormai globalizzato.
Rinnovo del contratto di categoria
La piattaforma contrattuale dovrà essere oggetto di discussione e confronto con tutta la categoria e non solo tra vertici e organismi sindacali. In tal senso è assolutamente criticabile il metodo utilizzato dalla Fnsi nel novembre scorso, quando il sindacato nazionale ha inviato alla Fieg un documento di 12 pagine con le prime proposte del sindacato nazionale, senza prima sottoporlo né alla Giunta esecutiva né alla Commissione contratto. Un documento che propone di modificare o addirittura cancellare ben 7 articoli contrattuali: nello specifico, gli articoli coinvolti nell’ipotesi di revisione sarebbero l’1, il 2 (che viene soppresso e sostituito con l’attuale 11), il 4, il 7, il 12 e il 36. Occorre quindi evitare l’inserimento nel contratto di categoria di nuove figure depotenziate rispetto a quelle attuali, altrimenti si rischia la destrutturazione delle redazioni e dello stesso contratto collettivo.
Riguardo alla suddetta bozza contrattuale si sottolinea che, pur condividendo ovviamente l’allargamento della platea del lavoro dipendente e l’introduzione nel CCNLG di nuove figure professionali, come lo stesso “collaboratore esterno” (che andrebbe di fatto a sostituire l’attuale articolo 2) e come quelle legate al web, vanno tuttavia indicati con precisione inquadramento economico e contrattuale per ciascuna figura. Tra le domande alle quali occorre dare risposte certe: quanto percepirà un redattore ordinario? Quanto un collaboratore esterno o un corrispondente? Questi ultimi, in particolare, avranno o meno diritto a Inpgi 1, Casagit (e a quale profilo?), ferie, malattia, tfr, festivi, eccetera? Quale sarà il minimo e come sarà calcolato il superminimo?
Appare, poi, molto insidioso il punto 4 della proposta contrattuale in oggetto, che va completamente riscritto: “Entro 12 mesi dall’entrata in vigore del presente contratto, al fine di facilitare l’incremento di occupazione nel settore editoriale, le aziende e i direttori delle testate, sentiti i rispettivi fiduciari o comitati di redazione, verificheranno, l’esistenza dei requisiti e le condizioni per la trasformazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, in atto in ciascuna azienda, in rapporti di lavoro subordinato sulla base di quanto previsto dall’art. 2”.
In questo modo non ci sono precise garanzie che il passaggio avvenga sia perché si delega alla volontà di aziende (e se sono o prospettano lo stato di crisi?), direttori e cdr che devono verificare l’esistenza dei requisiti (invece di indicarli direttamente nel contratto, per fare qualche esempio: continuità lavorativa, in monocommittenza o lavoro per un committente prevalente e/o in esclusiva, ecc) sia perché si parla solo di cococo, e non di altre false forme di lavoro autonomo che dissimulano veri e propri rapporti di lavoro dipendente, come per esempio le partite Iva che vengono fatte aprire anche quando non si è liberi professionisti ma si lavora per un unico committente.
La Macroarea “Grande Editoria” dell’associazione Stampa Romana, auspicando che tali istanze vengano recepite nelle sedi opportune, continuerà a monitorare attivamente sia l’iter di approvazione del ddl Editoria sia le trattative per il rinnovo del contratto nazionale.