Il Lazio continua a detenere la maglia nera nella speciale e poco nobile classifica delle minacce ai giornalisti. L’ultimo aggiornamento segna quota 112 su 321 casi da gennaio a ottobre. Il Lazio sopravanza nettamente nella classifica Sicilia con 40 casi e Campania con 39.
Si conferma la tendenza degli ultimi quattro anni. E si conferma grosso modo la percentuale complessiva di minacce che si aggira intorno al 35% (ha avuto negli scorsi anni picchi del 40 sul totale). Siamo oltre quota 103 totalizzata lo scorso anno.
I 112 casi sono così suddivisi: 50 denunce ed azioni legali, 42 avvertimenti, 11 ostacoli all’informazione, 8 aggressioni fisiche, 1 danneggiamento.
Abbiamo provato a sollecitare le istituzioni, i comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica provinciali, trovando ascolto a Latina e Roma, ma non risposte o azioni da mettere concretamente in campo. Questi dati hanno costanti linee di tendenza.
Il territorio sconta la presenza di redazioni massicce e importanti. Roma resta sempre la Capitale d’Italia con i suoi riflettori, i suoi coni d’ombra, le insidie nella ricerca della verità. Se si è sostanzialmente esaurito l’impatto mediatico della vicenda di Roma capitale che aveva provocato il record di 201 nel 2015, restano invece tutte le difficoltà strutturali nel rapporto informazione e diritto costituzionale di informare ed essere informati versus diritti alla privacy od altri diritti meritevoli di tutela, sempre derivanti dalla Costituzione.
In più si sta sviluppando, come forma di pressione, l’insulto o la minaccia pesante via social. Sembra che il mare magnum della rete con l’implicita garanzia dell’anonimato o, ancor meglio, della confusione, del mucchio selvaggio, sia altra scorciatoia per comportamenti censori o pressioni illecite.
L’altro filone costante è quello della querela temeraria, percorrendo la strada del penale e/o del risarcimento danni in sede civile.
Mentre attendiamo che il codice Rocco sia archiviato definitivamente eliminando il collegamento diffamazione-carcere notiamo che lo Stato si impegna e si indigna ma non conclude – anzi alcuni politici non nascondono la loro contrarietà alla cancellazione della diffamazione come reato. Ricordo a questo proposito proprio i dati forniti ad Ossigeno dal ministro Orlando e dai suoi uffici lo scorso anno.
Sono quasi 6mila i nuovi procedimenti penali per diffamazione, in crescita dell’8% annuo. Il 90% non produce niente, si conclude con un nulla di fatto ai danni dei giornalisti, riscontrano la correttezza del comportamento dei colleghi ma sono generatori di ansia, angoscia, preoccupazione.
A 155 giornalisti sono stati inflitti invece 103 anni di carcere anche se questi non si traducono in detenzione. Di tutti questi colleghi sarebbe il caso ad esempio capire quanti sono precari.
E questo apre il terzo corno della questione. Se per un cronista assunto in una redazione ci sono garanzie legate al posto fisso e agli uffici legali della testata (anche se gli effetti sul lavoro non mancano: chiedete al collega della Stampa Gianluca Paolucci se ha potuto lavorare ancora sul dossier Unipol che aveva in mano ed era uno scoop), per un freelance, diciamo la buona parte dei cronisti di provincia di città, dell’informazione capillare e diffusa, di quella più schiettamente territoriale non c’è nulla che li garantisca. Per questi colleghi che guadagnano mediamente tra i 9mila euro (se sono co.co.co) e i 14mila euro annui (se sono partite Iva) diventa un autentico sacrificio restare ancorati alla loro professionalità.
Sacrificio in latino significa fare sacro, rendere sacro il mestiere. Quando “precipita” la querela tra capo e collo da qualche “potente”, sanno che non hanno alle spalle studi legali o redazioni in grado di proteggerli. E non tutti hanno la vocazione al martirio. Ecco perchè mi auguro che l’Ordine dei Giornalisti, rinnovato nei suoi vertici, segni la discontinuità e fornisca materia e fondi per varare un fondo antiquerele che garantisca i più deboli all’interno della nostra comunità.
LA STORIA
Segnalo come crocicchio di un paio di queste questioni quanto accaduto a due colleghi campani della “Voce delle Voci“, accusa rilanciata dal sindacato territoriale guidato da Claudio Silvestri.
Due colleghi sono stati condannati per diffamazione in primo grado dal giudice di Cassino. Il magistrato ha imposto il pagamento della provvisionale per 5mila euro a favore di ciascuna delle due persone che hanno messo in moto il procedimento penale. Uno dei due procedimenti penali chiusosi recentemente riguarda un fatto di cronaca datato 1991, 26 anni fa.
Una delle colleghe in causa Rita Pennarola scrive: “Preciso che non esercito più né il giornalismo d’inchiesta né quello anticamorra (come avevo fatto per oltre 20 anni) da quando sono diventata bersaglio di azioni esecutive a ripetizione, che sarebbero state forse meno cruente se in quei 20 anni fossi stata io stessa un boss della malavita organizzata”.
Non c’è altro da aggiungere.