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Uniti contro le mafie, solidarietà a Enzo Palmesano

caso palmesano

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La sentenza della Corte d’Appello di Napoli sulle pressioni del boss (deceduto) Vincenzo Lubrano per epurare il giornalista Enzo Palmesano e bloccare le sue inchieste sul potere del clan dei casalesi sembra la trama di un telefilm che arriva dal Sud America, dal Messico o dalla Russia di Putin. E invece è “solo” la conferma giudiziaria di quanto la malavita organizzata conti in alcune zone del nostro Paese. Tutto quello che dice il verdetto di secondo grado lo aveva già scritto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ma questa ulteriore validazione dei fatti è un risarcimento morale e una constatazione amara al tempo stesso.

Palmesano è componente della Macroarea Articolo 21 di Stampa Romana e in questa veste è impegnato da anni a difendere l’agibilità della professione di tanti colleghi, forte della sua drammatica esperienza maturata sul campo e a sue spese. Di lui il boss (è scritto negli atti e documentato dalle intercettazioni telefoniche) diceva che “rompeva i coglioni” e per tale ragione ordinò e ottenne che quel giornalista scomodo non facesse più il nome di Lello Lubrano e che fosse allontanato dal giornale per cui collaborava, il Corriere di Caserta.

I fatti si sono verificati nel 2003 e dopo quindici lunghi anni anche una delle pagine più brutte dell’informazione in Italia è stata scritta. Bruttissima perché il direttore del Corriere di Caserta, Vincenzo Guarino, accettò gli ordini del boss. Risulta agli atti che “Guarino, condividendo il negativo giudizio su Palmesano… assicura il proprio interessamento per ‘ridimensionare’ lo sgradito professionista”. Lo si deduce da una intercettazione fatta sullo stesso Francesco Cascella che riferendo del colloquio avuto col direttore racconta: “… parola mia, dice, che non… per quanto riguarda il nome di Lello Lubrano non uscirà più nessun articolo… digli a don Vincenzo (Lubrano ndc) che se vuole lo vado a trovare pure io”. In quest’ultima frase c’è la sottomissione al volere del boss. E infatti subito dopo quella telefonata si “verificò un progressivo ridimensionamento del giornalista, fino alla sua definitiva epurazione. Le modalità con cui tale estromissione maturò nel tempo (a partire dai primi mesi del 2003, in perfetta sincronia rispetto alle iniziative assunte da Lubrano, con progressivo ridimensionamento delle pubblicazioni a firma del giornalista) rispecchiano una strategia di isolamento –  si legge nella sentenza di Appello – evocativa di un clima di grave intimidazione ambientale”. La Corte dice anche che c’era una “insofferenza manifesta del Lubrano per la pedanteria del Palmensano, che minacciava, con i suoi articoli, la ‘serenità’ del capoclan (“non posso nemmeno andare a pisciare più”).  Palmesano scriveva cose molto scomode per il clan.

Per i giudici di secondo grado vi fu “la necessità (avvertita dal boss) di contrastare le inchieste giornalistiche del Palmesano, incentrate sugli affari illeciti del clan”.

Il verdetto della Corte d’Appello di Napoli rappresenta, anche, per la Macroarea Articolo 21 dell’Associazione Stampa Romana un passaggio storico nel riconoscimento dei condizionamenti mafiosi sull’informazione nel sud d’Italia e, contemporaneamente, essa è un balsamo per continuare nella strada intrapresa di difesa del diritto dei cronisti a poter esercitare la professione ovunque, anche in zone compromesse.

Graziella Di Mambro
Responsabile Macroarea Articolo 21

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